N. 56 SENTENZA 29 SETTEMBRE 1958
Deposito in cancelleria: 3 ottobre 1958. Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 253 del 18 ottobre 1958. Pres. AZZARITI - Rel. PAPALDO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente - Prof. TOMASO PERASSI - Prof. GASPARE AMBPOSINI - Dott. MARIO COSATTI - Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI - Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - Prof. ANTONINO PAPALDO - Prof. MARIO BRACCI - Prof. NICOLA JAEGER - Prof. GIOVANNI CASSANDRO - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. ALDO SANDULLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza 7 luglio 1958 della Corte di assise di Cremona emessa nel procedimento penale a carico di Berghetti Giuseppe e Querini Benvenuto, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 174 del 19 luglio 1958 ed iscritta al n. 28 del Registro ordinaze 1958; 2) ordinanza 1 luglio 1958 della Corte di assise di Milano emessa nel procedimento penale a carico di Ciappina Ugo ed altri, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 216 del 6 settembre 1958 ed iscritta al n. 32 del Registro ordinanze 1958. Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udita all'udienza pubblica del 24 settembre 1958 la relazione del Giudice Antonino Papaldo; uditi gli avvocati Ferdinando D'Atena e Giovanni Bovio per Ciappina Ugo e il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaele Bronzini per il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni.
Ritenuto in fatto:
I due giudizi, iscritti ai numeri 28 e 32 del Registro ordinanze del 1958, concernono entrambi la medesima questione di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, sulla partecipazione delle donne all'amministrazione della giustizia nelle Corti d'assise e nei Tribunali per i minorenni. L'ordinanza iscritta al n. 28 proviene dal giudizio penale pendente davanti alla Corte d'assise di Cremona a carico di Berghetti Giuseppe e Querini Benvenuto. Fu emessa nell'udienza del 7 luglio 1958, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 10 luglio, comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento il giorno 8 dello stesso mese e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. della Repubblica n. 174 del successivo giorno 19. In questo giudizio, davanti alla Corte costituzionale, non c'è stata costituzione di parte privata, ma è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri che, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha depositato in cancelleria le proprie deduzioni il 26 luglio 1958 e quelle aggiuntive il 10 settembre. L'ordinanza segnata al n. 32 proviene dal giudizio penale pendente davanti alla Corte d'assise di Milano a carico di Ciappina Ugo ed altri 24 imputati. Fu pronunciata all'udienza del 1 luglio 1958, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 7 luglio e successivamente agli imputati, comunicata ai Presidenti delle Camere legislative il 3 luglio 1958 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 216 del 6 settembre 1958. Delle parti private si è costituito davanti alla Corte costituzionale il Ciappina con atto depositato in cancelleria il 30 agosto 1958. Sì è costituito anche il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, parte civile nel procedimento penale davanti alla Corte d'assise di Milano, ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, i quali, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, dalla quale sono rappresentati e difesi, hanno depositato le loro deduzioni in cancelleria il 26 luglio 1958. La Corte d'assise di Cremona ha proposto d'ufficio la questione, mentre nel procedimento penale pendente dinanzi alla Corte d'assise di Milano essa è stata sollevata dalla difesa del Ciappina. Entrambe le Corti, ritenuta la questione non manifestamente infondata ed influente ai fini del decidere, in quanto riflette la regolarità o meno della costituzione del collegio giudicante, l'hanno sottoposta all'esame della Corte costituzionale. La questione si pone in questi termini: la legge 27 dicembre 1956, n. 1441, in applicazione dell'art. 102, ultimo comma, della Costituzione, relativo alla partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia, ha ammesso anche le donne a far parte delle Corti d'assise, prescrivendo, però, che dei sei giudici popolari, che compongono il collegio, almeno tre devono essere uomini. Di modo che i componenti di sesso femminile dei collegi di Corte d'assise non possono superare il numero di tre, ossia la metà dei giudici popolari. Il dubbio espresso in proposito dalle due ordinanze è questo: la limitazione numerica è legittima o non è piuttosto in contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione, che sanciscono, rispettivamente, l'eguaglianza giuridica dei cittadini senza distinzione di sesso e l'accesso agli uffici pubblici dei cittadini dell'uno e dell'altro sesso in condizioni di uguaglianza? La difesa del Ciappina sostiene l'illegittimità della norma, sotto il riflesso che l'equiparazione dei sessi, sancita negli articoli 3 e 51 della Costituzione, è assoluta e che la riserva di legge, contenuta nell'art. 51, riguarda solo i "requisiti" che il legislatore deve fissare per potere accedere ai pubblici uffici. Requisiti che sono quelli della cittadinanza, dell'età, del godimento dei diritti civili e politici, del titolo di studio, ma non anche quello del sesso, a proposito del quale la Costituzione avrebbe sancito un principio di assoluta eguaglianza. Ora, questo principio sarebbe stato vulnerato nella legge n. 1441 del 1956, la quale, prescrivendo un numero minimo di giudici popolari di sesso maschile e non assicurando, correlativamente, anche un numero minimo di giudici popolari di sesso femminile, opererebbe un trattamento "differenziale" per gli uomini, e, come tale, costituzionalmente illegittimo. L'Avvocatura generale dello Stato, nell'interesse del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, sostiene, invece, che l'art. 51 della Costituzione, che si assume violato, dopo avere ammesso che tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere ai pubblici uffici in condizioni di eguaglianza, aggiunge: "secondo i requisiti stabiliti dalla legge". Esso contiene cioè una riserva di legge, domandando al legislatore ordinario il potere di applicare quella direttiva alle particolari situazioni concrete, secondo la valutazione politica riferita al momento storico della emanazione della legge. E tra i requisiti che la legge ordinaria può fissare per accedere a determinati uffici è da comprendere anche il sesso. Se così non fosse, se cioè non si dovesse o non si potesse porre alcuna limitazione riguardo al sesso, si dovrebbe giungere all'assurdo di considerare illegittime le norme che escludono le donne dalla carriera militare, dalla magistratura militare, ecc. D'altra parte, afferma l'Avvocatura, non è vero che la Costituzione abbia voluto operare un assoluto livellamento dei sessi, ché anzi molte disposizioni della Carta costituzionale danno invece rilievo al sesso; così l'art. 29 sull'ordinamento della famiglia, l'art. 37 sui diritti della donna lavoratrice e via dicendo. Nulla di strano quindi se, dopo aver affermato in linea di principio l'eguaglianza dei sessi ai fini dell'accesso agli uffici pubblici, la Costituzione abbia poi demandato al legislatore ordinario il compito di valutare, in concreto e settore per settore dell'Amministrazione, l'ammissione della donna ad esercitare un determinata funzione pubblica. Tale intendimento risulterebbe dagli stessi lavori preparatori sia dell'art. 51 che dell'art. 106 della Costituzione. A proposito dell'art. 51, rileva l'Avvocatura esser vero che l'inciso "secondo i requisiti stabiliti dalla legge" sostituì, su richiesta del gruppo parlamentare femminile, il precedente inciso "conformemente alle loro attitudini secondo norme stabilite dalla legge", ma è pur vero che, approvato l'emendamento, lo stesso relatore ebbe ad osservare che "doveva rimanere ben chiaro come la donna non potesse ovviamente accedere a tutti gli uffici". Per quanto riguarda poi l'art. 106, continua l'Avvocatura, è da rilevare che un emendamento, inteso a consentire alle donne l'accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura, posto in votazione, fu respinto. Alla stregua di queste considerazioni, l'ultimo inciso dell'articolo 51 sarebbe da intendersi nel senso che la legge può e deve tener conto della particolare adattabilità della donna ai singoli settori dell'amministrazione, e se è legittimo il potere del legislatore ordinario di ammettere le donne a determinati uffici pubblici o escluderle dagli stessi, si deve considerare implicita, e quindi pienamente legittima, anche la potestà di limitare numericamente la partecipazione della donna al concreto esercizio delle pubbliche funzioni. Riserva questa che sarebbe conforme al principio sancito dall'art. 102 della Costituzione, secondo il quale la legge regola "i casi e le forme" della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia. Del resto, continua l'Avvocatura, la legge n. 1441 del 1956 non ha violato né l'art. 3 né l'art. 51 della Costituzione perché, prescrivendo che dei sei giudici popolari almento tre - e cioè la metà - devono essere uomini, non offende la personalità e la dignità della donna, attesa la possibilità che essa ha di partecipare in condizioni di parità numerica e con gli stessi diritti di voto rispetto ai giudici popolari di sesso maschile. Anzi è da ritenere che la legge del 1956, fissando nel massimo a tre il numero dei giudici popolari di sesso femminile, sia andato anche più in là della aspirazione delle donne italiane, le cui rappresentanti in seno alla Camera, in un proposta di legge del 1951, avevano limitato soltanto a due il numero delle donne nei collegi di Corte d'assise. Per queste considerazioni, la difesa dello Stato conclude perché la questione sia dichiarata infondata. All'udienza, i difensori hanno illustrato le rispettive deduzioni, insistendo nelle conclusioni già enunciate.
Considerato in diritto:
Le due cause in esame, congiuntamente discusse alla pubblica udienza, possono essere definite con unica pronuncia, avendo esse per oggetto la medesima questione. L'ordinanza della Corte di assise di Cremona rileva che gli articoli 3 e 51 della Costituzione attribuiscono parità di diritti tra uomini e donne, mentre la legge 27 dicembre 1956, n. 1441, dopo avere ammesso le donne nei colllegi giudicanti delle corti di assise, limita tale partecipazione nel senso che le donne non possono essere in maggioranza sugli uomini. La Corte di assise di Milano fa una considerazione analoga, notando che il raffronto tra la norma costituzionale (art. 51) e quella della predetta legge ordinaria non consente di negare il contrasto tra esse, in quanto la prima sancisce condizioni di eguaglianza tra i cittadini dell'uno e dell'altro sesso nell'ammissione ai pubblici uffici ed alle cariche elettive, mentre la seconda pone una limitazione numerica alla partecipazione delle donne all'amministrazione della giustizia nelle Corti di assise, disponendo che siano escluse da tale partecipazione le donne oltre la terza, nonostante la loro precedenza rispetto agli uomini nell'ordine di estrazione. La Corte milanese aggiunge che il contrasto non appare superabile se non, eventualmente, soltanto in base ad una penetrante esegesi critica che valga a stabilire se si possa affermare che il legislatore costituente abbia inteso conferire a quello ordinario - ed entro quali limiti - il potere di valutare caso per caso non solo l'attitudine della donna ad esercitare una determinata funzione pubblica, ma altresì, una volta riconosciuta questa attitudine, come nel caso in esame, la facoltà di escludere le donne eccedenti un certo numero, non prefissato per l'altro sesso. Nelle sue deduzioni scritte la difesa dell'imputato Ciappina ha posto in rilievo come la stessa legge che fissa i requisiti per i giudici popolari non menzioni il sesso, né avrebbe potuto menzionarlo, dato che tra i requisiti di cui parla l'art. 51 della Costituzione il sesso non può essere compreso. Nel prescrivere che dei sei giudici popolari almeno tre debbono essere uomini, la legge del 1956 vulnera il principio dell'eguaglianza dei sessi in quanto impone un trattamento preferenziale degli uomini. Nella discussione orale questo concetto è stato sviluppato dalla stessa difesa nel senso che tale trattamento preferenziale sarebbe fondato illegittimamente sulla base di una pretesa minore dignità di un collegio composto in maggioranza da donne. Poiché la questione, così posta con le ordinanze che hanno dato inizio alla presente controversia, non nasce per il fatto che la legge denunziata abbia escluso le donne dai collegi giudicanti delle Corti di assise, ché anzi l'ammissione delle donne ne è stato uno degli intenti, ma nasce per il fatto che tale partecipazione sarebbe stata illegittimamente sottoposta a limitazioni, la Corte costituzionale non deve vagliare le tesi che, nelle difese scritte ed orali, sono state prospettate, in linea generale, circa le leggi, anteriori e posteriori alla Costituzione, che tacciano sul sesso delle persone in rapporto a determinati uffici pubblici o a determinate carriere di pubblici funzionari ovvero che neghino espressamente agli appartenenti ad uno dei due sessi l'accesso a tali uffici o carriere. La questione sollevata dalle ordinanze ha un aspetto particolare; tuttavia essa non può trovare definizione senza ricorrere ai principi generali. La Corte deve, pertanto, portare il suo esame sui principi informatori degli articoli 3 e 51 della Costituzione, con i quali giustamente le ordinanze predette hanno posto a raffronto le disposizioni denunziate. Quando all'articolo 3, la Corte non può che ripetere l'enunciazione fatta con le precedenti sentenze del 16 e 22 gennaio 1957, n. 3 e n. 28, e del 9 luglio 1958, n. 53, con le quali, affermando che il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge deve intendersi nel senso che il legislatore può dettare disposizioni particolari in riferimento alle obbiettive diversità dei casi, questo Collegio notò che il legislatore deve osservare i limiti stabiliti nel primo comma dello stesso articolo 3, ai sensi del quale le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali non possono essere assunte quali criteri validi per la adozione di una disciplina diversa. Ciò significa che l'art. 3, primo comma, contiene un precetto di fronte al quale non sono ammesse deroghe da parte del legislatore ordinario. Poiché, però, nei riguardi del sesso - e solo nei riguardi del sesso - la Costituzione ha dettato altre norme, occorre che anche di esse la Corte si occupi. In particolare, in relazione al caso in esame, si deve portare l'attenzione sull'art. 51. Questa norma, dopo avere riaffermato, nei riguardi dell'ammissione ai pubblici uffici, il principio di eguaglianza fra i due sessi, soggiunge: "secondo i requisiti stabiliti dalla legge". L'interpretazione dell'inciso ha molta importanza ai fini della risoluzione della presente controversia. Come è noto, le opinioni sono divise, perché, mentre alcuni interpreti ritengono che tra "i requisiti" possa ricomprendersi il sesso delle persone, altri sono d'avviso che tali requisiti siano quelli occorrenti per accedere ai pubblici uffici in generale o a determinati pubblici uffici, esclusa ogni possibilità di far riferimento al sesso. La Corte osserva che, per quanto la formulazione della norma non offra, sotto l'aspetto letterale, elementi decisivi, le parole "secondo i requisiti stabiliti dalla legge" assumono un più idoneo significato se "i requisiti" attengano anche al sesso delle persone. È buona regola di interpretazione quella di cercare nelle parole della legge un significato che sia, più che possibile, aderente ad un concreto contenuto normativo. Ora, nel caso del primo comma dell'art. 51, se per "requisiti" si dovessero intendere quelli generali o particolari stabiliti dalla legge ad esclusione del sesso, la disposizione apparirebbe piuttosto pleonastica, in quanto è ovvio che tutti gli aspiranti ad un pubblico ufficio debbono possedere, siano uomini o siano donne, i requisiti di capacità, età, idoneità fisica e intellettuale, e così via, occorrenti per accedervi. Se, invece, l'inciso contenuto nell'art. 51 si interpreta nel senso che possa riferirsi anche al sesso delle persone, la norma assume un significato più concreto e l'inciso viene a formare un tutto unico nel contesto del comma del quale fa parte nonché nel contesto dell'intero art. 51, che non fu dettato in vista dell'ordinamento dei pubblici uffici bensì in vista della proclamazione dei diritti e dei doveri dei cittadini nei rapporti politici. Neppure i lavori preparatori presentano elementi univoci e sicuri. Per limitare l'indagine a circostanze essenziali, è da ricordare che in una precedente formulazione l'art. 48 del progetto (articolo che nel testo definitivo ha preso il numero 51) conteneva l'inciso "conformemente alle loro attitudini secondo norme stabilite da legge", indicando, senza alcuna possibilità di equivoco, che le attitudini si riferivano anche al sesso. A questa formula fu sostituita quella attuale "secondo i requisiti stabiliti dalla legge". Ora, mentre, da un lato, bisogna riconoscere che la modificazione della formula non possa non avere un significato, non si può, d'altra parte, mettere in non cale che la modificazione della precedente formula fu accompagnata e seguita da affermazioni in base alle quali la formula nuova si riteneva che lasciasse libera la legge ordinaria di stabilire particolari modalità per l'applicazione conconcreta del principio di eguaglianza. Analogamente, non univoche furono le manifestazioni che accompagnarono l'appprovazione dell'art. 98 del progetto (ora art. 106), in relazione al quale, mentre fu respinto un emendamento aggiuntivo che assicurava alle donne il diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura, fu, nella seduta successiva, approvato un ordine del giorno con cui si affermò che l'art. 48 (ora art. 51) conteneva le "garanzie necessarie" per la tutela di tale diritto. Da queste contrastanti opinioni e dall'intento abbastanza chiaro dei costituenti di trovare formule che attenuassero tali contrasti, si può dedurre che l'Assemblea costituente fu orientata nel senso che, tanto per l'ammissione ai pubblici uffici in generale quanto per l'ammissione in Magistratura, il canone fondamentale fosse quello dell'eguaglianza dei sessi, salve le modalità di applicazione rimesse alla legge. Senza volere con questo attribuire all'episodio un valore superiore a quello che gli compete, si può aggiungere che anche da parte di un settore della rappresentanza femminile della Camera dei deputati si dovette partire dal medesimo presupposto, se con la proposta di legge contenente "norme per la partecipazione delle donne alle giurie popolari nelle Corti di assise", presentata nella seduta del 9 maggio 1951, si stabiliva espressamente, nel secondo comma dell'articolo unico, che "non possono far parte del collegio più di due donne" e di tale limitazione la relazione dava, nella sua ultima parte, accurata dimostrazione, tale che potrebbe servire nei riguardi della legge 27 dicembre 1956, la cui approvazione assorbì quel progetto parlamentare. Ad ogni modo, la Corte ritiene che agli argomenti sopra esposti, dei quali si è messa in rilievo l'efficacia non del tutto decisiva, si sovrapponga un argomento che attiene all'interpretazione storico-sistematica della norma costituzionale in esame. È da considerare, anzitutto, che la Costituzione trasformava radicalmente un sistema tradizionale che vigeva nelle leggi e soprattutto nel costume riguardo alla condizione giuridica della donna, sistema che solo da poco più di un quarto di secolo aveva risentito, nella legislazione, gli effetti di una evoluzione verso principi di eguaglianza. Era naturale che, pur avendo posto il precetto dell'eguaglianza giuridica delle persone dei due sessi, i costituenti abbiano ritenuto che restasse al legislatore ordinario una qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell'intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone. Del resto, anche gli articoli 29 e 37 della Costituzione partono da un presupposto non ispirato ad un'assoluta e indiscriminata parità livellatrice fra uomini e donne: l'art. 29, deferendo alla legge di fissare i limiti a garanzia dell'unità familiare; l'art. 37, assicurando, a favore della donna, condizioni di lavoro consone alla sua essenziale funzione di sposa e di madre. E per quanto si tratti di un'altra materia e si tratti di una norma formulata in modo differente, può richiamarsi anche l'art. 52, secondo comma, il quale, nei riguardi del servizio militare obbligatorio, rinvia ai limiti e modi stabiliti dalla legge. Ora, non pare negabile che, in tali limiti e modi, possa comprendersi un trattamento delle donne diverso da quello degli uomini.Le disposizioni richiamate hanno una nota comune: la riserva di legge; la stessa riserva di legge che è posta dall'art. 51 e dagli articoli 102, 106 e 108 della Costituzione. Si può concludere che una interpretazione sistematica delle norme costituzionali esaminate induce a far ritenere che le leggi ordinarie, che regolano l'accesso dei cittadini ai pubblici uffici (art. 51) e che regolano i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all'amministrazione della giustizia (art. 102, terzo comma), possano tener conto, nell'interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purché non resti infranto il canone fondamentale dell'eguaglianza giuridica. In passato si è parlato di concessione di questo o di quel diritto alle donne; oggi, riconosciuta dalla Costituzione l'eguaglianza di diritto a tutti senza distinzione di sesso, la regola è l'eguaglianza. L'accertamento di particolari attitudini che rendano più o meno idonei i cittadini dell'uno o dell'altro sesso a determinati uffici pubblici vale e per gli uomini e per le donne. Così non si potrebbe negare, a priori, la legittimità costituzionale di una norma che dichiarasse i cittadini di sesso femminile esclusivamente adatti o più particolarmente adatti a determinati uffici o servizi pubblici.Poste queste premesse, occorre ora passare all'esame analitico delle ordinanze, i cui termini sono stati esposti in principio. La nota comune delle due ordinanze sta nel rilievo che la legge 27 dicembre 1956 abbia stabilito, nei riguardi degli appartenenti ai due sessi, differenze nella partecipazione al collegio giudicante delle Corti di assise. La Corte costituzionale osserva che è innegabile che la legge del 1956 abbia stabilito una differenziazione fra i componenti dei collegi predetti; ma non basta tale affermazione per costituire, ex se, causa di incostituzionalità. La differenziazione non appare, in questo caso, in contrasto con il precetto dell'eguaglianza, in quanto la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei collegi risponde non al concetto di una minore capacità delle donne ma alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi. Non è superfluo, all'uopo, ricordare come nelle legislazioni di Paesi che da tanti anni ci hanno preceduto nel riconoscimento dell'eguaglianza giuridica dei sessi, il potere di limitare o addirittura di escludere le donne dalla giuria popolare in certi processi è affidato al presidente. La legge in esame ha creduto di adottare un criterio più meccanico; ma non per questo essa appare come violatrice delle norme costituzionali che assicurano l'eguaglianza dei sessi. Più delicato si presenta l'altro rilievo proposto dalla sola Corte di assise di Milano. In sostanza, quei giudici esprimono il dubbio se possa dirsi legittima una disposizione che, dopo avere riconosciuto nelle donne l'attitudine ad esercitare una determinata funzione pubblica, possa, poi, escludere le donne eccedenti un certo numero, non prefissato per l'altro sesso. Se con questa osservazione si intende ripetere lo stesso rilievo fatto in precedenza, che cioè, in tal modo, si crea una disparità tra uomini e donne, la risposta è quella che la Corte ha già dato. Se, invece, si vuol dire che la legge del 1956, ammettendo prima e limitando poi, abbia dettato disposizioni contraddittorie, si può rispondere che tale contraddizione non esiste. La capacità delle donne è stata in pieno riconosciuta. Le limitazioni numeriche si ispirano ad un altro criterio, che è quello volto al buon funzionamento del collegio giudicante nel senso ampiamente illustrato dalla Corte nell'esposizione che precede. Le diverse disposizioni della legge del 1956 sono, quindi, sopra piani diversi, che escludono possibilità di contrasti. La Corte rileva, infine, che l'osservazione fatta in udienza da uno dei difensori del Ciappina, per quanto ingegnosa, non è rilevante non risultando né dalla lettera delle disposizioni in esame né dai lavori preparatori, né soprattutto dallo spirito della legge, che il presupposto della limitazione del numero dei giudici popolari di sesso femminile sia dovuto all'idea che i collegi con un numero maggiore di donne abbiano minore dignità di un collegio composto con una maggioranza di uomini.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
pronunciando con unica sentenza sui procedimenti segnati in epigrafe: dichiara non fondata la questione proposta con le sopra indicate ordinanze della Corte di assise di Cremona del 7 luglio 1958 e della Corte di assise di Milano del 1 dello stesso mese sulla legittimità costituzionale delle norme della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, relative alla partecipazione delle donne all'amministrazione della giustizia nelle Corti di assise, in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 settembre 1958, GAETANO AZZARITI - TOMASO PERASSI GASPARE AMBROSINI - MARIO COSATTI - FRANCESCO PANTALEO GABRIELI - GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - ANTONINO PAPALDO - MARIO BRACCI - NICOLA JAEGER - GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO PETROCELLI - ANTONIO MANCA - ALDO SANDULLI.
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