Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0056 del 1958 inserita nel sistema il 9/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Disposizione oggetto: legge 1441/1956:
-Argomento psicologico (ricorso alla volontà del legislatore concreto)
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.3 comma 1:
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.51:
-Argomento psicologico (ricorso alla volontà del legislatore concreto)
-Argomento sistematico: a) della sedes materiae (argomento topografico)
-Argomento ab absurdo (argomento apagogico)
-Argomento psicologico (ricorso alla volontà del legislatore concreto)
-Argomento sistematico: c) concettualistico (argomento dogmatico)
-Argomento naturalistico (ipotesi del legislatore impotente)

N. 56
SENTENZA 29 SETTEMBRE 1958

Deposito in cancelleria: 3 ottobre 1958.
Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 253 del 18 ottobre 1958.
Pres. AZZARITI - Rel. PAPALDO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente - Prof.
TOMASO PERASSI - Prof. GASPARE AMBPOSINI - Dott. MARIO COSATTI - Prof.
FRANCESCO PANTALEO GABRIELI - Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - Prof.
ANTONINO PAPALDO - Prof. MARIO BRACCI - Prof. NICOLA JAEGER - Prof.
GIOVANNI CASSANDRO - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA -
Prof. ALDO SANDULLI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 27
dicembre 1956, n. 1441, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza 7 luglio 1958 della Corte di assise di Cremona emessa
nel procedimento penale a carico di Berghetti Giuseppe e Querini
Benvenuto, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 174
del 19 luglio 1958 ed iscritta al n. 28 del Registro ordinaze 1958;
2) ordinanza 1 luglio 1958 della Corte di assise di Milano emessa
nel procedimento penale a carico di Ciappina Ugo ed altri, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 216 del 6 settembre 1958
ed iscritta al n. 32 del Registro ordinanze 1958.
Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio
dei Ministri;
udita all'udienza pubblica del 24 settembre 1958 la relazione del
Giudice Antonino Papaldo;
uditi gli avvocati Ferdinando D'Atena e Giovanni Bovio per Ciappina
Ugo e il sostituto avvocato generale dello Stato Raffaele Bronzini per
il Presidente del Consiglio dei Ministri e per il Ministro delle poste
e delle telecomunicazioni.

Ritenuto in fatto:

I due giudizi, iscritti ai numeri 28 e 32 del Registro ordinanze
del 1958, concernono entrambi la medesima questione di legittimità
costituzionale della legge 27 dicembre 1956, n. 1441, sulla
partecipazione delle donne all'amministrazione della giustizia nelle
Corti d'assise e nei Tribunali per i minorenni.
L'ordinanza iscritta al n. 28 proviene dal giudizio penale pendente
davanti alla Corte d'assise di Cremona a carico di Berghetti Giuseppe e
Querini Benvenuto. Fu emessa nell'udienza del 7 luglio 1958,
notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri il 10 luglio,
comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento il giorno 8 dello
stesso mese e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. della Repubblica n.
174 del successivo giorno 19.
In questo giudizio, davanti alla Corte costituzionale, non c'è
stata costituzione di parte privata, ma è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei Ministri che, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, ha depositato in cancelleria le proprie deduzioni
il 26 luglio 1958 e quelle aggiuntive il 10 settembre.
L'ordinanza segnata al n. 32 proviene dal giudizio penale pendente
davanti alla Corte d'assise di Milano a carico di Ciappina Ugo ed altri
24 imputati. Fu pronunciata all'udienza del 1 luglio 1958, notificata
al Presidente del Consiglio dei Ministri il 7 luglio e successivamente
agli imputati, comunicata ai Presidenti delle Camere legislative il 3
luglio 1958 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
216 del 6 settembre 1958.
Delle parti private si è costituito davanti alla Corte
costituzionale il Ciappina con atto depositato in cancelleria il 30
agosto 1958.
Sì è costituito anche il Ministro delle poste e delle
telecomunicazioni, parte civile nel procedimento penale davanti alla
Corte d'assise di Milano, ed è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei Ministri, i quali, a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato,
dalla quale sono rappresentati e difesi, hanno depositato le loro
deduzioni in cancelleria il 26 luglio 1958.
La Corte d'assise di Cremona ha proposto d'ufficio la questione,
mentre nel procedimento penale pendente dinanzi alla Corte d'assise di
Milano essa è stata sollevata dalla difesa del Ciappina. Entrambe le
Corti, ritenuta la questione non manifestamente infondata ed influente
ai fini del decidere, in quanto riflette la regolarità o meno della
costituzione del collegio giudicante, l'hanno sottoposta all'esame
della Corte costituzionale.
La questione si pone in questi termini: la legge 27 dicembre 1956,
n. 1441, in applicazione dell'art. 102, ultimo comma, della
Costituzione, relativo alla partecipazione diretta del popolo
all'amministrazione della giustizia, ha ammesso anche le donne a far
parte delle Corti d'assise, prescrivendo, però, che dei sei giudici
popolari, che compongono il collegio, almeno tre devono essere uomini.
Di modo che i componenti di sesso femminile dei collegi di Corte
d'assise non possono superare il numero di tre, ossia la metà dei
giudici popolari.
Il dubbio espresso in proposito dalle due ordinanze è questo: la
limitazione numerica è legittima o non è piuttosto in contrasto con
gli articoli 3 e 51 della Costituzione, che sanciscono,
rispettivamente, l'eguaglianza giuridica dei cittadini senza
distinzione di sesso e l'accesso agli uffici pubblici dei cittadini
dell'uno e dell'altro sesso in condizioni di uguaglianza?
La difesa del Ciappina sostiene l'illegittimità della norma, sotto
il riflesso che l'equiparazione dei sessi, sancita negli articoli 3 e
51 della Costituzione, è assoluta e che la riserva di legge, contenuta
nell'art. 51, riguarda solo i "requisiti" che il legislatore deve
fissare per potere accedere ai pubblici uffici. Requisiti che sono
quelli della cittadinanza, dell'età, del godimento dei diritti civili
e politici, del titolo di studio, ma non anche quello del sesso, a
proposito del quale la Costituzione avrebbe sancito un principio di
assoluta eguaglianza.
Ora, questo principio sarebbe stato vulnerato nella legge n. 1441
del 1956, la quale, prescrivendo un numero minimo di giudici popolari
di sesso maschile e non assicurando, correlativamente, anche un numero
minimo di giudici popolari di sesso femminile, opererebbe un
trattamento "differenziale" per gli uomini, e, come tale,
costituzionalmente illegittimo.
L'Avvocatura generale dello Stato, nell'interesse del Presidente
del Consiglio dei Ministri e del Ministro delle poste e delle
telecomunicazioni, sostiene, invece, che l'art. 51 della Costituzione,
che si assume violato, dopo avere ammesso che tutti i cittadini
dell'uno e dell'altro sesso possono accedere ai pubblici uffici in
condizioni di eguaglianza, aggiunge: "secondo i requisiti stabiliti
dalla legge". Esso contiene cioè una riserva di legge, domandando al
legislatore ordinario il potere di applicare quella direttiva alle
particolari situazioni concrete, secondo la valutazione politica
riferita al momento storico della emanazione della legge.
E tra i requisiti che la legge ordinaria può fissare per accedere
a determinati uffici è da comprendere anche il sesso. Se così non
fosse, se cioè non si dovesse o non si potesse porre alcuna
limitazione riguardo al sesso, si dovrebbe giungere all'assurdo di
considerare illegittime le norme che escludono le donne dalla carriera
militare, dalla magistratura militare, ecc.
D'altra parte, afferma l'Avvocatura, non è vero che la
Costituzione abbia voluto operare un assoluto livellamento dei sessi,
ché anzi molte disposizioni della Carta costituzionale danno invece
rilievo al sesso; così l'art. 29 sull'ordinamento della famiglia,
l'art. 37 sui diritti della donna lavoratrice e via dicendo. Nulla di
strano quindi se, dopo aver affermato in linea di principio
l'eguaglianza dei sessi ai fini dell'accesso agli uffici pubblici, la
Costituzione abbia poi demandato al legislatore ordinario il compito di
valutare, in concreto e settore per settore dell'Amministrazione,
l'ammissione della donna ad esercitare un determinata funzione
pubblica. Tale intendimento risulterebbe dagli stessi lavori
preparatori sia dell'art. 51 che dell'art. 106 della Costituzione.
A proposito dell'art. 51, rileva l'Avvocatura esser vero che
l'inciso "secondo i requisiti stabiliti dalla legge" sostituì, su
richiesta del gruppo parlamentare femminile, il precedente inciso
"conformemente alle loro attitudini secondo norme stabilite dalla
legge", ma è pur vero che, approvato l'emendamento, lo stesso relatore
ebbe ad osservare che "doveva rimanere ben chiaro come la donna non
potesse ovviamente accedere a tutti gli uffici".
Per quanto riguarda poi l'art. 106, continua l'Avvocatura, è da
rilevare che un emendamento, inteso a consentire alle donne l'accesso a
tutti gli ordini e gradi della Magistratura, posto in votazione, fu
respinto.
Alla stregua di queste considerazioni, l'ultimo inciso
dell'articolo 51 sarebbe da intendersi nel senso che la legge può e
deve tener conto della particolare adattabilità della donna ai singoli
settori dell'amministrazione, e se è legittimo il potere del
legislatore ordinario di ammettere le donne a determinati uffici
pubblici o escluderle dagli stessi, si deve considerare implicita, e
quindi pienamente legittima, anche la potestà di limitare
numericamente la partecipazione della donna al concreto esercizio delle
pubbliche funzioni. Riserva questa che sarebbe conforme al principio
sancito dall'art. 102 della Costituzione, secondo il quale la legge
regola "i casi e le forme" della partecipazione diretta del popolo
all'amministrazione della giustizia.
Del resto, continua l'Avvocatura, la legge n. 1441 del 1956 non ha
violato né l'art. 3 né l'art. 51 della Costituzione perché,
prescrivendo che dei sei giudici popolari almento tre - e cioè la
metà - devono essere uomini, non offende la personalità e la dignità
della donna, attesa la possibilità che essa ha di partecipare in
condizioni di parità numerica e con gli stessi diritti di voto
rispetto ai giudici popolari di sesso maschile. Anzi è da ritenere
che la legge del 1956, fissando nel massimo a tre il numero dei giudici
popolari di sesso femminile, sia andato anche più in là della
aspirazione delle donne italiane, le cui rappresentanti in seno alla
Camera, in un proposta di legge del 1951, avevano limitato soltanto a
due il numero delle donne nei collegi di Corte d'assise.
Per queste considerazioni, la difesa dello Stato conclude perché
la questione sia dichiarata infondata.
All'udienza, i difensori hanno illustrato le rispettive deduzioni,
insistendo nelle conclusioni già enunciate.

Considerato in diritto:

Le due cause in esame, congiuntamente discusse alla pubblica
udienza, possono essere definite con unica pronuncia, avendo esse per
oggetto la medesima questione.
L'ordinanza della Corte di assise di Cremona rileva che gli
articoli 3 e 51 della Costituzione attribuiscono parità di diritti tra
uomini e donne, mentre la legge 27 dicembre 1956, n. 1441, dopo avere
ammesso le donne nei colllegi giudicanti delle corti di assise, limita
tale partecipazione nel senso che le donne non possono essere in
maggioranza sugli uomini.
La Corte di assise di Milano fa una considerazione analoga, notando
che il raffronto tra la norma costituzionale (art. 51) e quella della
predetta legge ordinaria non consente di negare il contrasto tra esse,
in quanto la prima sancisce condizioni di eguaglianza tra i cittadini
dell'uno e dell'altro sesso nell'ammissione ai pubblici uffici ed alle
cariche elettive, mentre la seconda pone una limitazione numerica alla
partecipazione delle donne all'amministrazione della giustizia nelle
Corti di assise, disponendo che siano escluse da tale partecipazione le
donne oltre la terza, nonostante la loro precedenza rispetto agli
uomini nell'ordine di estrazione. La Corte milanese aggiunge che il
contrasto non appare superabile se non, eventualmente, soltanto in base
ad una penetrante esegesi critica che valga a stabilire se si possa
affermare che il legislatore costituente abbia inteso conferire a
quello ordinario - ed entro quali limiti - il potere di valutare caso
per caso non solo l'attitudine della donna ad esercitare una
determinata funzione pubblica, ma altresì, una volta riconosciuta
questa attitudine, come nel caso in esame, la facoltà di escludere le
donne eccedenti un certo numero, non prefissato per l'altro sesso.
Nelle sue deduzioni scritte la difesa dell'imputato Ciappina ha
posto in rilievo come la stessa legge che fissa i requisiti per i
giudici popolari non menzioni il sesso, né avrebbe potuto menzionarlo,
dato che tra i requisiti di cui parla l'art. 51 della Costituzione il
sesso non può essere compreso. Nel prescrivere che dei sei giudici
popolari almeno tre debbono essere uomini, la legge del 1956 vulnera il
principio dell'eguaglianza dei sessi in quanto impone un trattamento
preferenziale degli uomini. Nella discussione orale questo concetto è
stato sviluppato dalla stessa difesa nel senso che tale trattamento
preferenziale sarebbe fondato illegittimamente sulla base di una
pretesa minore dignità di un collegio composto in maggioranza da
donne.
Poiché la questione, così posta con le ordinanze che hanno dato
inizio alla presente controversia, non nasce per il fatto che la legge
denunziata abbia escluso le donne dai collegi giudicanti delle Corti di
assise, ché anzi l'ammissione delle donne ne è stato uno degli
intenti, ma nasce per il fatto che tale partecipazione sarebbe stata
illegittimamente sottoposta a limitazioni, la Corte costituzionale non
deve vagliare le tesi che, nelle difese scritte ed orali, sono state
prospettate, in linea generale, circa le leggi, anteriori e posteriori
alla Costituzione, che tacciano sul sesso delle persone in rapporto a
determinati uffici pubblici o a determinate carriere di pubblici
funzionari ovvero che neghino espressamente agli appartenenti ad uno
dei due sessi l'accesso a tali uffici o carriere.
La questione sollevata dalle ordinanze ha un aspetto particolare;
tuttavia essa non può trovare definizione senza ricorrere ai principi
generali. La Corte deve, pertanto, portare il suo esame sui principi
informatori degli articoli 3 e 51 della Costituzione, con i quali
giustamente le ordinanze predette hanno posto a raffronto le
disposizioni denunziate.
visualizza testo argomento Quando all'articolo 3, la Corte non può che ripetere
l'enunciazione fatta con le precedenti sentenze del 16 e 22 gennaio
1957, n. 3 e n. 28, e del 9 luglio 1958, n. 53, con le quali,
affermando che il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla
legge deve intendersi nel senso che il legislatore può dettare
disposizioni particolari in riferimento alle obbiettive diversità dei
casi, questo Collegio notò che il legislatore deve osservare i limiti
stabiliti nel primo comma dello stesso articolo 3, ai sensi del quale
le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche e di condizioni personali e sociali non possono essere
assunte quali criteri validi per la adozione di una disciplina diversa.
Ciò significa che l'art. 3, primo comma, contiene un precetto di
fronte al quale non sono ammesse deroghe da parte del legislatore
ordinario. Poiché, però, nei riguardi del sesso - e solo nei
riguardi del sesso - la Costituzione ha dettato altre norme, occorre
che anche di esse la Corte si occupi. In particolare, in relazione al
caso in esame, si deve portare l'attenzione sull'art. 51.
Questa norma, dopo avere riaffermato, nei riguardi dell'ammissione
ai pubblici uffici, il principio di eguaglianza fra i due sessi,
soggiunge: "secondo i requisiti stabiliti dalla legge".
L'interpretazione dell'inciso ha molta importanza ai fini della
risoluzione della presente controversia.
Come è noto, le opinioni sono divise, perché, mentre alcuni
interpreti ritengono che tra "i requisiti" possa ricomprendersi il
sesso delle persone, altri sono d'avviso che tali requisiti siano
quelli occorrenti per accedere ai pubblici uffici in generale o a
determinati pubblici uffici, esclusa ogni possibilità di far
riferimento al sesso.
visualizza testo argomento La Corte osserva che, per quanto la formulazione della norma non
offra, sotto l'aspetto letterale, elementi decisivi, le parole "secondo
i requisiti stabiliti dalla legge" assumono un più idoneo significato
se "i requisiti" attengano anche al sesso delle persone. È buona
regola di interpretazione quella di cercare nelle parole della legge un
significato che sia, più che possibile, aderente ad un concreto
contenuto normativo. Ora, nel caso del primo comma dell'art. 51, se
per "requisiti" si dovessero intendere quelli generali o particolari
stabiliti dalla legge ad esclusione del sesso, la disposizione
apparirebbe piuttosto pleonastica, in quanto è ovvio che tutti gli
aspiranti ad un pubblico ufficio debbono possedere, siano uomini o
siano donne, i requisiti di capacità, età, idoneità fisica e
intellettuale, e così via, occorrenti per accedervi. Se, invece,
l'inciso contenuto nell'art. 51 si interpreta nel senso che possa
riferirsi anche al sesso delle persone, la norma assume un significato
più concreto e visualizza testo argomento l'inciso viene a formare un tutto unico nel contesto
del comma del quale fa parte nonché nel contesto dell'intero art. 51,
che non fu dettato in vista dell'ordinamento dei pubblici uffici bensì
in vista della proclamazione dei diritti e dei doveri dei cittadini nei
rapporti politici.
visualizza testo argomento Neppure i lavori preparatori presentano elementi univoci e sicuri.
Per limitare l'indagine a circostanze essenziali, è da ricordare che
in una precedente formulazione l'art. 48 del progetto (articolo che nel
testo definitivo ha preso il numero 51) conteneva l'inciso
"conformemente alle loro attitudini secondo norme stabilite da legge",
indicando, senza alcuna possibilità di equivoco, che le attitudini si
riferivano anche al sesso. A questa formula fu sostituita quella
attuale "secondo i requisiti stabiliti dalla legge". Ora, mentre, da un
lato, bisogna riconoscere che la modificazione della formula non possa
non avere un significato, non si può, d'altra parte, mettere in non
cale che la modificazione della precedente formula fu accompagnata e
seguita da affermazioni in base alle quali la formula nuova si riteneva
che lasciasse libera la legge ordinaria di stabilire particolari
modalità per l'applicazione conconcreta del principio di eguaglianza.
Analogamente, non univoche furono le manifestazioni che accompagnarono
l'appprovazione dell'art. 98 del progetto (ora art. 106), in relazione
al quale, mentre fu respinto un emendamento aggiuntivo che assicurava
alle donne il diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della
magistratura, fu, nella seduta successiva, approvato un ordine del
giorno con cui si affermò che l'art. 48 (ora art. 51) conteneva le
"garanzie necessarie" per la tutela di tale diritto.
Da queste contrastanti opinioni e dall'intento abbastanza chiaro
dei costituenti di trovare formule che attenuassero tali contrasti, si
può dedurre che l'Assemblea costituente fu orientata nel senso che,
tanto per l'ammissione ai pubblici uffici in generale quanto per
l'ammissione in Magistratura, il canone fondamentale fosse quello
dell'eguaglianza dei sessi, salve le modalità di applicazione rimesse
alla legge. visualizza testo argomento Senza volere con questo attribuire all'episodio un valore superiore
a quello che gli compete, si può aggiungere che anche da parte di un
settore della rappresentanza femminile della Camera dei deputati si
dovette partire dal medesimo presupposto, se con la proposta di legge
contenente "norme per la partecipazione delle donne alle giurie
popolari nelle Corti di assise", presentata nella seduta del 9 maggio
1951, si stabiliva espressamente, nel secondo comma dell'articolo
unico, che "non possono far parte del collegio più di due donne" e di
tale limitazione la relazione dava, nella sua ultima parte, accurata
dimostrazione, tale che potrebbe servire nei riguardi della legge 27
dicembre 1956, la cui approvazione assorbì quel progetto parlamentare. visualizza testo argomento Ad ogni modo, la Corte ritiene che agli argomenti sopra esposti,
dei quali si è messa in rilievo l'efficacia non del tutto decisiva, si
sovrapponga un argomento che attiene all'interpretazione
storico-sistematica della norma costituzionale in esame.
È da considerare, anzitutto, che la Costituzione trasformava
radicalmente un sistema tradizionale che vigeva nelle leggi e
soprattutto nel costume riguardo alla condizione giuridica della donna,
sistema che solo da poco più di un quarto di secolo aveva risentito,
nella legislazione, gli effetti di una evoluzione verso principi di
eguaglianza. Era naturale che, pur avendo posto il precetto
dell'eguaglianza giuridica delle persone dei due sessi, i costituenti
abbiano ritenuto che restasse al legislatore ordinario una qualche
sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del
principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo
funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell'intento di meglio
utilizzare le attitudini delle persone.
visualizza testo argomento Del resto, anche gli articoli 29 e 37 della Costituzione partono da
un presupposto non ispirato ad un'assoluta e indiscriminata parità
livellatrice fra uomini e donne: l'art. 29, deferendo alla legge di
fissare i limiti a garanzia dell'unità familiare; l'art. 37,
assicurando, a favore della donna, condizioni di lavoro consone alla
sua essenziale funzione di sposa e di madre. E per quanto si tratti di
un'altra materia e si tratti di una norma formulata in modo differente,
può richiamarsi anche l'art. 52, secondo comma, il quale, nei riguardi
del servizio militare obbligatorio, rinvia ai limiti e modi stabiliti
dalla legge. Ora, non pare negabile che, in tali limiti e modi, possa
comprendersi un trattamento delle donne diverso da quello degli uomini.Le disposizioni richiamate hanno una nota comune: la riserva di
legge; la stessa riserva di legge che è posta dall'art. 51 e dagli
articoli 102, 106 e 108 della Costituzione.
Si può concludere che una interpretazione sistematica delle norme
costituzionali esaminate induce a far ritenere che le leggi ordinarie,
che regolano l'accesso dei cittadini ai pubblici uffici (art. 51) e che
regolano i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo
all'amministrazione della giustizia (art. 102, terzo comma), possano
tener conto, nell'interesse dei pubblici servizi, delle differenti
attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purché non
resti infranto il canone fondamentale dell'eguaglianza giuridica.
In passato si è parlato di concessione di questo o di quel diritto
alle donne; oggi, riconosciuta dalla Costituzione l'eguaglianza di
diritto a tutti senza distinzione di sesso, la regola è l'eguaglianza.
visualizza testo argomento L'accertamento di particolari attitudini che rendano più o meno idonei
i cittadini dell'uno o dell'altro sesso a determinati uffici pubblici
vale e per gli uomini e per le donne. Così non si potrebbe negare, a
priori, la legittimità costituzionale di una norma che dichiarasse i
cittadini di sesso femminile esclusivamente adatti o più
particolarmente adatti a determinati uffici o servizi pubblici.Poste queste premesse, occorre ora passare all'esame analitico
delle ordinanze, i cui termini sono stati esposti in principio.
La nota comune delle due ordinanze sta nel rilievo che la legge 27
dicembre 1956 abbia stabilito, nei riguardi degli appartenenti ai due
sessi, differenze nella partecipazione al collegio giudicante delle
Corti di assise. La Corte costituzionale osserva che è innegabile che
la legge del 1956 abbia stabilito una differenziazione fra i componenti
dei collegi predetti; ma non basta tale affermazione per costituire, ex
se, causa di incostituzionalità. La differenziazione non appare, in
questo caso, in contrasto con il precetto dell'eguaglianza, in quanto
la limitazione numerica nella partecipazione delle donne in quei
collegi risponde non al concetto di una minore capacità delle donne ma
alla esigenza di un più appropriato funzionamento dei collegi stessi.
Non è superfluo, all'uopo, ricordare come nelle legislazioni di Paesi
che da tanti anni ci hanno preceduto nel riconoscimento
dell'eguaglianza giuridica dei sessi, il potere di limitare o
addirittura di escludere le donne dalla giuria popolare in certi
processi è affidato al presidente. La legge in esame ha creduto di
adottare un criterio più meccanico; ma non per questo essa appare come
violatrice delle norme costituzionali che assicurano l'eguaglianza dei
sessi.
Più delicato si presenta l'altro rilievo proposto dalla sola Corte
di assise di Milano. In sostanza, quei giudici esprimono il dubbio se
possa dirsi legittima una disposizione che, dopo avere riconosciuto
nelle donne l'attitudine ad esercitare una determinata funzione
pubblica, possa, poi, escludere le donne eccedenti un certo numero, non
prefissato per l'altro sesso.
Se con questa osservazione si intende ripetere lo stesso rilievo
fatto in precedenza, che cioè, in tal modo, si crea una disparità tra
uomini e donne, la risposta è quella che la Corte ha già dato. Se,
invece, si vuol dire che la legge del 1956, ammettendo prima e
limitando poi, abbia dettato disposizioni contraddittorie, si può
rispondere che tale contraddizione non esiste. La capacità delle
donne è stata in pieno riconosciuta. Le limitazioni numeriche si
ispirano ad un altro criterio, che è quello volto al buon
funzionamento del collegio giudicante nel senso ampiamente illustrato
dalla Corte nell'esposizione che precede. Le diverse disposizioni
della legge del 1956 sono, quindi, sopra piani diversi, che escludono
possibilità di contrasti.
La Corte rileva, infine, che l'osservazione fatta in udienza da uno
dei difensori del Ciappina, per quanto ingegnosa, non è rilevante non
risultando né dalla lettera delle disposizioni in esame né dai lavori
preparatori, né soprattutto dallo spirito della legge, che il
presupposto della limitazione del numero dei giudici popolari di sesso
femminile sia dovuto all'idea che i collegi con un numero maggiore di
donne abbiano minore dignità di un collegio composto con una
maggioranza di uomini.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

pronunciando con unica sentenza sui procedimenti segnati in
epigrafe:
dichiara non fondata la questione proposta con le sopra indicate
ordinanze della Corte di assise di Cremona del 7 luglio 1958 e della
Corte di assise di Milano del 1 dello stesso mese sulla legittimità
costituzionale delle norme della legge 27 dicembre 1956, n. 1441,
relative alla partecipazione delle donne all'amministrazione della
giustizia nelle Corti di assise, in riferimento agli articoli 3 e 51
della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 29 settembre 1958,
GAETANO AZZARITI - TOMASO PERASSI
GASPARE AMBROSINI - MARIO COSATTI -
FRANCESCO PANTALEO GABRIELI -
GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - ANTONINO
PAPALDO - MARIO BRACCI - NICOLA
JAEGER - GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO
PETROCELLI - ANTONIO MANCA - ALDO
SANDULLI.

 
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