N. 64 SENTENZA 23 NOVEMBRE 1961
Deposito in cancelleria: 28 novembre 1961. Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 300 del 2 dicembre 1961. Pres. CAPPI - Rel. PETROCELLI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Avv. GIUSEPPE CAPPI, Presidente Prof. GASPARE - AMBROSINI - Dott. MARIO COSATTI - Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI - Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - Prof. ANTONINO PAPALDO - Prof. NICOLA JAEGER - Prof. GIOVANNI CASSANDRO - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. ALDO SANDULLI - Prof. GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 559 del Codice penale, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 24 novembre 1960 dal Tribunale di Lagonegro nel procedimento penale a carico di De Rinaldis Domenico e Salzano Lucia, iscritta al n. 1 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 31 del 4 febbraio 1961; 2) ordinanza emessa il 10 maggio 1961 dal Pretore di Ancona nel procedimento penale a carico di Di Martino Anna e Cugini Otello, iscritta al n. 88 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 187 del 29 luglio 1961. Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udita nell'udienza pubblica dell'8 novembre 1961 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli; udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
Ritenuto in fatto:
Nel procedimento penale pendente davanti al Tribunale di Lagonegro a carico di De Rinaldis Domenico e Salzano Lucia, imputati di relazione adulterina, la difesa degli imputati ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 559 Cod. pen. in relazione agli artt. 3 e 29 della Costituzione. Il Tribunale, ritenuta la questione non manifestamente infondata, con ordinanza del 24 novembre 1960, sospeso il procedimento, rimetteva gli atti alla Corte costituzionale. In tale ordinanza si rileva che l'art. 559 Cod. pen., prevedendo come reato soltanto l'adulterio della moglie e non anche quello del coniuge in generale, crea una disparità di trattamento giuridico fra i coniugi, ponendosi così in contrasto col principio della loro eguaglianza morale e giuridica stabilito dall'art. 29 della Costituzione, nonché con quello della parità dei sessi di fronte alla legge di cui all'art. 3 della Costituzione stessa. La medesima questione è stata sollevata in altro procedimento penale per relazione adulterina pendente a carico di Di Martino Anna e Cugini Otello davanti al Pretore di Ancona, il quale, con ordinanza del 10 maggio 1961, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale. Il Pretore, richiamandosi anche all'ordinanza del Tribunale di Lagonegro, osserva che la legge penale, prevedendo come reato in ogni caso la relazione adulterina della donna, mentre subordina la punibilità del concubinato dell'uomo alla condizione che esso avvenga nella casa coniugale o notoriamente altrove, viene a stabilire fra i coniugi una disparità di trattamento; disparità che appare lesiva del principio sancito dall'art. 29 della Costituzione, in virtù del quale il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a tutela della unità familiare. Le due ordinanze, regolarmente notificate e comunicate, sono state pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, rispettivamente del 4 febbraio e del 29 luglio 1961, nn. 31 e 187. In entrambi i giudizi si è costituito soltanto il Presidente del Consiglio dei Ministri, con atti di intervento dell'Avvocatura generale dello Stato del 23 dicembre 1960 e del 30 maggio 1961. L'Avvocatura dello Stato, premessi alcuni richiami di carattere storico sui criteri seguiti dalle precedenti legislazioni, rileva preliminarmente che se il legislatore, e in particolare il Costituente, orienta la evoluzione della norma nel senso della evoluzione del costume, non può sovvertire, nella malintesa attuazione di principi insussistenti, le regole che esprimono il lento evolversi degli usi e delle tradizioni. Nel nostro ordinamento si ha, da un lato, la determinazione dell'obbligo reciproco di fedeltà fra i due coniugi, sancito dall'art. 143 del Codice civile, e, dall'altro, un differente trattamento, nella legge penale, per ciò che riguarda la trasgressione di questo obbligo di fedeltà. La giustificazione della disparità - sostiene l'Avvocatura - è da ricercarsi in ciò che non è uguale. Il comportamento infedele non determina eguali conseguenze a seconda che sia dell'uomo o della donna. La punibilità soltanto della donna nel caso di un singolo atto di infedeltà trova fondamento nella diversa gravità delle possibili conseguenze dell'atto. E basti a tal proposito pensare alla presunzione dell'art. 231 del Codice civile, per cui il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio. Osserva, inoltre, l'Avvocatura che oggetto della tutela, nella norma dell'art. 559, non è soltanto il diritto del marito alla fedeltà della moglie, bensì il preminente interesse dell'unità della famiglia, che dalla condotta infedele della moglie è leso e posto in pericolo in misura che non trova riscontro nelle conseguenze di una isolata infedeltà del marito. Altre considerazioni riguardano la punibilità del correo dell'adultera, la quale, secondo l'Avvocatura, è da staccarsi dalle norme ordinarie del concorso di più persone nel reato, e trova autonoma spiegazione, appunto, nel fatto che la norma dell'art. 559 tutela interessi che vanno al di là del diritto del marito alla fedeltà della moglie. Nella memoria in data 26 ottobre 1961 l'Avvocatura dello Stato ribadisce gli argomenti già svolti nell'atto di intervento, aggiungendo alcuni richiami di dottrina.
Considerato in diritto:
Le due cause, data la identità dell'oggetto, sono decise con unica sentenza. L'ordinanza del Pretore di Ancona propone la indagine limitatamente alla legittimità costituzionale del terzo comma dell'art. 559 Cod. pen., ma la questione deve ritenersi estesa all'intero articolo in base all'ordinanza del Tribunale di Lagonegro. 1. - Devono, innanzi tutto, essere ben chiari i limiti dell'intervento della Corte costituzionale nelle questioni che si sono riaccese in occasione della presente controversia. E noto che relativa mente alla posizione dei due coniugi nella famiglia si discute, de iure condendo: se sia opportuno che la infedeltà coniugale sia ancora dalla legge considerata come reato; se, nell'affermativa, debba essere eguale o diverso per i due coniugi il trattamento penale; se le sanzioni penali attualmente stabilite siano veramente adeguate alla importanza dei fatti; se il sistema vigente meriti, comunque, di essere riformato; ecc. Tutte queste questioni - non è superfluo il ribadirlo - sono estranee alla competenza della Corte, e nulla alla Corte spetta di decidere in proposito. E se gli argomenti in vario senso da esse suscitati sono da prendere in qualche considerazione nella sentenza, ciò avviene solo se e in quanto, per una loro attinenza col contenuto e con i motivi della norma impugnata, siano idonei a fornire elementi per la decisione della questione di legittimità costituzionale. Di tale questione, pertanto, l'oggetto deve ritenersi fissato nei termini seguenti: poiché la legge penale vigente include l'adulterio, la relazione adulterina e il concubinato nel novero dei reati, e dispone un diverso trattamento per i due coniugi, occorre stabilire se questa disparità di trattamento costituisca violazione del principio di eguaglianza, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. 2. - È noto che l'art. 3 dichiara il principio di eguaglianza in generale, in virtù del quale tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. L'art. 29 riguarda in particolare il principio di eguaglianza nel matrimonio, e dispone che questo è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare. Sul principio di eguaglianza di cui all'art. 3 questa Corte ha avuto occasione di pronunciarsi in più sentenze; ed ha costantemente ritenuto che tale principio, diretto evidentemente ad impedire che a danno dei cittadini siano dalle leggi disposte discriminazioni arbitrarie, non può significare che il legislatore sia obbligato a disporre per tutti una identica disciplina, mentre, al contrario, deve essergli consentito di adeguare le norme giuridiche ai vari aspetti della vita sociale, dettando norme diverse per situazioni diverse: esigenza inderogabile di logica legislativa che qualche costituzione moderna ha addirittura espressamente dichiarata. Un ordinamento il quale non distingua situazione da situazione e tutte le situazioni consideri allo stesso modo non è nemmeno pensabile, anche perché, come bene è stato osservato, finirebbe in sostanza col non disporre regola alcuna. Dato il suo fondamento logico, questa interpretazione è da ritenersi valida non soltanto per il principio di eguaglianza in genere, ma per ogni norma ove il principio di eguaglianza venga in questione, anche in una sua applicazione particolare. Pertanto, il giudizio sulla legittimità costituzionale della norma impugnata deve svolgersi, conformemente del resto alla impostazione delle due ordinanze di rinvio, con riferimento non soltanto alla norma dell'art. 29, ma anche a quella generale dell'art. 3 della Costituzione: l'una, che per il principio di eguaglianza tra i coniugi prevede che la legge ordinaria possa disporre limiti a garanzia della unità familiare; l'altra, che il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge intende necessariamente subordinato alla identità o diversità delle situazioni che il legislatore ordinario è chiamato a regolare. 3. - Fra le argomentazioni enunciate in dottrina a favore della illegittimità costituzionale dell'art. 559 Cod. pen., viene di solito posta in speciale rilievo quella che tende a circoscrivere l'oggetto della tutela penale, negando che esso si estenda all'interesse dell'unità familiare, e limitandolo al diritto alla fedeltà coniugale. In tale modo si ritiene di poter sostenere che, essendo questo diritto eguale nei due coniugi ed eguale per conseguenza l'entità dell'offesa, verrebbe a mancare ogni ragione per una diversità di trattamento; e tale disparità, se effettivamente sancita, come appunto nell'art. 559, costituirebbe violazione del principio di eguaglianza. In contrario è da rilevare che il diritto alla fedeltà non è l'unico oggetto della tutela e della offesa; ma che anche se lo fosse ciò non costituirebbe ragione sufficiente per la illegittimità della norma. Quella diversità di situazioni, infatti, che, secondo la interpretazione dell'art. 3 ora ricordata, esclude che il diverso trattamento costituisca violazione del principio di eguaglianza, è determinata, in diritto penale, non soltanto dalla diversa natura del bene leso, ma anche da una diversa quantità e gravità della offesa a carico dello stesso bene. Per conseguenza, anche ammettendo che unico bene protetto dalla norma dell'art. 559 sia la fedeltà coniugale, già basterebbe ad escludere la illegittimità del diverso trattamento, senza necessità di far capo alla unità familiare, la maggiore gravità della offesa che il legislatore, in conformità della comune opinione, riscontra nella infedeltà della moglie, e che non è negata, anzi talvolta è esplicitamente ammessa, dai sostenitori della illegittimità. Indubbiamente, secondo una pura valutazione morale, alla quale, a parte le leggi, è auspicabile che idealmente si ispiri la vita della famiglia, il principio della fedeltà coniugale è unico, e non soffre discriminazioni di carattere quantitativo. Tuttavia, l'ordinamento giuridico positivo non può del tutto prescindere, e di fatto non prescinde, dalle valutazioni che si affermano, spesso imperiosamente, nella vita sociale. Ora, che la moglie conceda i suoi amplessi ad un estraneo è apparso al legislatore, in base, come si è detto, alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito. Al di fuori di ogni apprezzamento, che non spetta alla Corte di compiere, trattasi della constatazione di un fatto della vita sociale, di un dato della esperienza comune, cui il legislatore ha ritenuto di non poter derogare. Da solo esso è idoneo a costituire quella diversità di situazione che esclude ogni carattere arbitrario e illegittimo nella diversità di trattamento. Del resto, nel disporre un siffatto trattamento, il legislatore penale, lungi dall'ispirarsi a sue limitate particolari vedute, non ha fatto che adeguarsi a una valutazione dell'ambiente sociale che, per la sua generalità, ha influenzato anche altre parti dell'ordinamento giuridico; come può chiaramente desumersi, tra l'altro, dall'art. 151 del Codice civile, il quale per l'adulterio della moglie consente l'azione di separazione in ogni caso, mentre per l'adulterio del marito la subordina alla condizione che il fatto costituisca una ingiuria grave a danno della moglie. In senso contrario nemmeno sarebbe il caso di riportarsi alle legislazioni di quei paesi nei quali la infedeltà coniugale nelle sue diverse forme non è preveduta come reato. E ciò perché ogni legislazione va considerata, come è ovvio, in rapporto agli orientamenti e alle influenze sociali del luogo in cui opera; e anche perché la non incriminazione può essere determinata da ragioni varie di opportunità familiare e sociale estranee alla gravità dei fatti in questione, gravità che, nella opinione pubblica di quei paesi, può essere anche non difforme da quella corrente nel nostro. 4. - Ma, in aggiunta alle ragioni già esposte e di per sé sufficienti, la illegittimità costituzionale dell'art. 559 è da escludere anche in considerazione dei limiti che, in forza dell'art. 29 della Costituzione, il legislatore ordinario ha potestà di stabilire al principio di eguaglianza fra i coniugi. Il diverso trattamento disposto dall'art. 559 Cod. pen. bene, infatti, può includersi fra i limiti posti a garanzia della unità familiare. È sorto il dubbio se la dichiarazione di eguaglianza fra i due coniugi non finisca, a causa di questo potere limitativo conferito al legislatore, col risultare soltanto apparente. Ma non sembra che il dubbio sia fondato. Il principio della eguaglianza fra i coniugi nel matrimonio è da ritenersi positivamente stabilito nell'ordinamento; né perde di contenuto a causa delle limitazioni che la legge può apportarvi, se queste, come è prescritto, siano mantenute nell'ambito della garanzia della unità familiare. Trattasi, evidentemente, di una eccezione al principio e che nel senso di una eccezione va interpretata; ma ciò non toglie che i limiti siano preveduti e che il concetto dell'unità familiare sia sufficiente a determinarne la portata. Con l'affermazione della esigenza dell'unità familiare, in fondo, il legislatore costituente riafferma un orientamento già manifesto nel primo comma dello stesso art. 29, allorché dichiara la famiglia società naturale fondata sul matrimonio: dove la qualifica di "naturale", se non ha un preciso contenuto giuridico, ha certamente implicito il richiamo e il riconoscimento del tradizionale concetto della famiglia, quale tuttora vive nella coscienza del popolo.Non è dubbio che fra i limiti al principio della eguaglianza dei coniugi siano in primo luogo da annoverare quelli che riguardano le esigenze di organizzazione della famiglia, e che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza della unità familiare e della posizione della famiglia nella vita sociale. Ma non sarebbe fondata la tendenza che volesse ridurre le limitazioni a questi coefficienti positivi. Il legislatore ha ritenuto che la garanzia dell'unità è affidata anche, come in tutti gli organismi, alla difesa contro ogni influenza negativa e disgregatrice della unità stessa; e si deve ammettere pertanto che, relativamente all'adulterio, alla relazione adulterina e al concubinato, le norme penali si siano appunto ispirate, senza arbitrarie disparità, a questa esigenza di difesa. Un indice abbastanza significativo dell'orientamento del Codice circa l'oggetto della tutela penale in queste figure di reato si può già riscontrare nella loro inclusione fra i delitti contro la famiglia e, più specificamente, contro il matrimonio: termini che, superando l'ambito limitato dei rapporti tra i due coniugi, riguardano la famiglia e il matrimonio nella più lata loro essenza istituzionale. È innegabile che anche l'adulterio del marito può, in date circostanze, manifestarsi coefficiente di disgregazione della unità familiare; ma, come per la fedeltà coniugale, così per la unità familiare il legislatore ha evidentemente ritenuto di avvertire una diversa e maggiore entità della illecita condotta della moglie, rappresentandosi la più grave influenza che tale condotta può esercitare sulle più delicate strutture e sui più vitali interessi di una famiglia: in primo luogo, l'azione disgregatrice che sulla intera famiglia e sulla sua coesione morale cagiona la sminuita reputazione nell'ambito sociale; indi, il turbamento psichico, con tutte le sue conseguenze sulla educazione e sulla disciplina morale che, in ispecie nelle famiglie (e sono la maggior parte) tuttora governate da sani principi morali, il pensiero della madre fra le braccia di un estraneo determina nei giovani figli, particolarmente nell'età in cui appena si annunciano gli stimoli e le immagini della vita sessuale; non ultimo il pericolo della introduzione nella famiglia di prole non appartenente al marito, e che a lui viene, tuttavia, attribuita per presunzione di legge, a parte la eventuale - rigorosamente condizionata - azione di disconoscimento. Tutti questi coefficienti hanno agito sulle direttive del legislatore; e ciò senza punto far calcolo, in quanto fatti anormali e che si auspicano destinati a scomparire, delle reazioni violente e delittuose cui, in ispecie in certi ambienti, può in particolare dar luogo la infedeltà della moglie. D'altra parte, che la legge penale, nel disporre un dato trattamento, si sia volta per volta adeguata, a seconda dei casi, alla varietà delle situazioni, risulta ben chiaro anche dal fatto che, relativamente alla stessa delicata materia della fedeltà sessuale, il marito e la moglie sono stati trattati con criteri di piena eguaglianza là dove identica è apparsa la posizione di entrambi. Basterà a tal proposito ricordare l'art. 587 Cod. pen. (e ciò a parte ogni valutazione circa l'accettabilità o meno dei criteri che hanno ispirata questa norma), che riduce a minima misura la quantità della pena per l'omicidio e per le lesioni personali volontarie nella ipotesi in cui il delitto sia commesso nell'atto di scoprire il coniuge, la figlia e la sorella in illegittima relazione carnale: il coniuge, in genere, dunque, e non soltanto la moglie, essendosi evidentemente riconosciuto che lo stato d'ira (così espressamente qualificato dal citato articolo) che è a base di questa speciale forma di provocazione, produce un turbamento psichico di tal natura e intensità da non consentire discriminazione alcuna fra i coniugi. In conclusione, la norma impugnata, dal punto di vista della sua legittimità costituzionale, nulla presenta nel suo contenuto e nelle sue finalità che possa qualificarla come violazione del principio di eguaglianza. Con tale norma non è stata creata a carico della moglie alcuna posizione di inferiorità, ma soltanto è stato preso atto di una situazione diversa, adattandovi una diversa disciplina giuridica. Che poi tale disciplina soddisfi ogni esigenza e sia mezzo idoneo e sufficiente per le finalità prese in considerazione, è questione di politica legislativa, non di legittimità costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
pronunciando sui due giudizi riuniti indicati in epigrafe: dichiara non fondata la questione, sollevata con le ordinanze del Tribunale di Lagonegro del 24 novembre 1960 e del Pretore di Ancona del 10 maggio 1961, sulla legittimità costituzionale dell'art. 559 del Codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 novembre 1961. GIUSEPPE CAPPI - GASPARE AMBROSINI - MARIO COSATTI - FRANCESCO PANTALEO GABRIELI - GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO - ANTONINO PAPALDO - NICOLA JAEGER - GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO PETROCELLI - ANTONIO MANCA - ALDO SANDULLI GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE CHIARELLI.
| |