N. 102 SENTENZA 26 GIUGNO 1967
Deposito in cancelleria: 8 luglio 1967. Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 177 del 17 luglio 1967. Pres. AMBROSINI - Rel. MORTATI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente - Prof. ANTONINO PAPALDO - Prof. NICOLA JAEGER - Prof. GIOVANNI CASSANDRO - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. ALDO SANDULLI - Prof. GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ- Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Dott. LUIGI OGGIONI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 316 e 320 del Codice civile, promosse con ordinanza emessa il 7 gennaio 1966 dal pretore di Imola su ricorso di Carla Folli in Perrella, iscritta al n. 40 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 del 30 aprile 1966. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; udita nell'udienza pubblica del 10 maggio 1967 la relazione del Giudice Costantino Mortati; udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto:
La signora Carla Folli in Perrella ha chiesto, con ricorso 4 dicembre 1965, al pretore di Imola, nella sua qualità di giudice tutelare, di volere autorizzare l'acquisto da parte del figlio minore Annibale di un'autovettura, utilizzando all'uopo la somma di cui quest'ultimo disponeva. E poiché a tale acquisto si opponeva, nella considerazione di non volersene assumere la responsabilità giuridica e morale, il marito della ricorrente e padre del minore, costei proponeva preliminarmente questione di legittimità costituzionale degli artt. 316 e 320 del Codice civile per violazione delle norme della Costituzione sulla parità dei coniugi. Il pretore, accertata la rilevanza della questione, l'ha ritenuta non manifestamente infondata, nella considerazione che la discriminazione fra i due coniugi in rapporto all'esercizio della patria potestà sui figli minori, quale risulta dagli articoli denunciati e dall'insieme delle altre disposizioni del Codice civile in materia, non è ispirata alla salvaguardia del principio dell'unità familiare, richiamato dall'art. 29 della Costituzione, ma invece alla pura semplice considerazione della diversità del sesso, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Che ciò sia vero emerge, secondo il pretore, dal rilievo che l'esercizio dei poteri consentiti alla madre può riuscire limitato anche quando l'unità sia venuta meno. Il che appare tanto più abnorme quando si tenga presente che le deroghe all'esigenza della parità fra coniugi, affermata dal citato art. 29 della Costituzione, devono rivestire carattere eccezionale (come la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto), carattere che non sarebbe rispettato ove la supremazia del marito si facesse valere anche in confronto a rapporti normali e continui, quali sono quelli attinenti all'esercizio della patria potestà. Osserva inoltre il pretore che l'unità alla quale ha avuto riguardo l'art. 29 non è l'unità del governo che si accentri in un solo soggetto, ma l'unitarietà di fatto dell'organismo familiare, che non presuppone un capo (secondo sembra sia stato riconosciuto dalla sentenza n. 9 del 1964 della Corte, che ha considerato la famiglia nel suo insieme, quale titolare di rapporti giuridici esercitabili sia dall'uno che dall'altro coniuge). Si aggiunge nell'ordinanza che il sacrifizio del principio di parità non potrebbe ritenersi giustificato dall'esigenza di prevenire e risolvere i conflitti di volontà nel governo della famiglia poiché tali conflitti sono rivelatori di una situazione eccezionale e patologica, e quindi il criterio regolatore dei normali rapporti fra i coniugi non può trarsi dalla detta abnorme eventualità. È invece piuttosto da ritenere che i rapporti in parola riuscirebbero pregiudicati proprio dal fatto che la moglie debba passivamente subire la volontà del marito, senza potere vantare alcun titolo giuridico neppure ad essere consultata. Si prospetta altresì la gravità delle conseguenze derivabili dalla sottrazione alla moglie di ogni potere nel governo della famiglia, quando si tratti non già di superare l'opposizione del marito ma di supplire ad una sua inerzia che risulti dannosa agli interessi familiari. Infine l'ordinanza fa rilevare il contrasto delle norme denunciate con l'art. 30 della Costituzione che attribuisce ad entrambi i coniugi parità nei doveri relativi al mantenimento, educazione ed istruzione dei figli (parità che trova applicazione nell'assunzione di un'uguale responsabilità per i danni cagionati dall'illecito dei figli minori secondo stabilito nell'art. 2048 del Codice civile) e che dovrebbe trovare corrispondenza nella parità dei diritti. L'ordinanza regolarmente comunicata e notificata è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105, del 30 aprile 1966. Si è costituito nel giudizio avanti alla Corte il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con deduzioni depositate il 22 marzo 1966. In esse si pone anzitutto in rilievo l'esistenza di una distinzione fra la patria potestà in senso stretto, di cui all'art. 316 del Codice civile e la rappresentanza legale del minore regolata dall'art. 320, primo comma, secondo risulterebbe comprovato fra l'altro, dalla dizione dell'art. 337. Ma si riconosce che la distinzione non assume rilievo decisivo per la soluzione della questione sollevata. Per tale soluzione è invece da fare riferimento al limite che l'art. 29 pone al principio della eguaglianza fra i sessi sancito nell'art. 3 per salvaguardare il bisogno dell'unità della famiglia. Si osserva che, comunque si interpreti l'unità familiare, è certo che, mentre nei casi normali contribuisce al suo mantenimento anche la moglie, in quelli eccezionali di disaccordo non può, per ragioni di natura, non affidarsi al marito la decisione. Decisione che tuttavia trova i suoi limiti nelle garanzie offerte dallo stesso Codice con le disposizioni di cui agli artt. 330 e 334 del Codice civile. Si contesta poi che sussista il contrasto con l'art. 30 della Costituzione fatto valere dall'ordinanza, nella considerazione che questo regola non i rapporti fra i coniugi ma quelli fra genitori e figli da un lato, e fra genitori e Stato dall'altro. Conclude chiedendo che sia dichiarata l'infondatezza della questione.
Considerato in diritto:
1. - L'ordinanza denuncia la illegittimità costituzionale degli artt. 316 e 320 del Codice civile nelle parti con cui attribuiscono al marito l'esercizio della patria potestà, e rispettivamente la rappresentanza dei figli in tutti gli atti civili nonché l'amministrazione dei loro beni; accedendo così all'opinione secondo cui questo secondo potere si connetta al primo come suo necessario attributo, e che le due disposizioni siano fra loro così collegate che dalla eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell'una conseguirebbe necessariamente quella dell'altra. Non appare rilevante esaminare le obiezioni mosse dall'Avvocatura dello Stato sulla esattezza di tale modo di intendere il rapporto fra le due norme, che viene invece da essa riguardato come riferentesi a funzioni fra loro diverse, poiché, come la stessa Avvocatura riconosce, la soluzione del dubbio non incide sulla questione sollevata. Quello che importa qui osservare è che, o se si intenda il concetto di patria potestà in senso ampio, comprensivo cioè di una serie di poteri indirizzati alla protezione di interessi fra loro diversi, o invece in senso stretto come uno dei settori in cui la funzione protettiva si esercita; e quindi, anche a volere interpretare alcune delle norme in materia (come per es. l'art. 337), nel senso che consentano la sottrazione al padre di alcuni solamente dei poteri inerenti ai rapporti con la prole, senza far venire meno l'esercizio degli altri rientranti nella patria potestà, è certo comunque che il sistema del Codice è ispirato al criterio di accentrare, di norma, nel marito l'esercizio di ogni specie di compiti relativi agli interessi dei figli minori. Ciò posto è da rilevare che, in sostanza, con l'ordinanza di rinvio le norme impugnate vengono censurate in quanto porrebbero in essere una violazione del principio di parità giuridica e morale dei coniugi stabilita dall'art. 29, secondo comma, della Costituzione, e sanzionando una distinzione fondata sul sesso, infrangerebbero anche il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, ponendosi altresì in contrasto con il successivo art. 30, che attribuisce il dovere di mantenere, educare ed istruire i figli ad entrambi i genitori. 2. - Deve osservarsi anzitutto, quanto all'art. 316 del Codice civile, che la censura è infondata. Ed invero la patria potestà, cioè quel complesso di poteri e di doveri tendenti appunto al mantenimento, alla educazione ed alla istruzione della prole, come alla cura dei relativi interessi patrimoniali, è attribuita in modo congiunto ad entrambi i genitori, così come risulta evidente dalla detta norma impugnata secondo cui "il figlio è soggetto alla potestà dei genitori"; sicché ciascuno di essi, quando esercita la potestà, lo fa "iure proprio". La madre quindi, (mentre ha sempre il diritto-dovere di esercitare le funzioni inerenti alla patria potestà, sia pure in conformità delle direttive paterne) quando, nelle ipotesi previste dalla legge, viene autonomamente chiamata a tale esercizio, assume la pienezza di un potere di cui, peraltro, era già titolare. Con ciò, pertanto, può escludersi senz'altro che alla madre venga conferita solo una potestà puramente astratta e priva di pratica efficacia, come è invece sostanzialmente affermato nell'ordinanza di rinvio. E se indubbiamente, secondo il sistema del Codice, è riconosciuta una prevalenza della volontà del padre in ordine alle funzioni in esame, è altresì vero che questa distinzione ripete la sua origine dalla esigenza, comunemente avvertita in ogni umano consorzio, di apprestare i mezzi per la formazione di una volontà unitaria riferibile al consorzio stesso. Questa esigenza infatti non può ritrovarsi anche nella società familiare che, pur essendo una istituzione a base essenzialmente etica, è tuttavia un organismo destinato a vivere ed operare nell'ambito dei concreti rapporti umani per l'attuazione dei suoi fini sociali, primo fra i quali, indubbiamente, emerge quello dell'allevamento e dell'educazione dei figli. È, pertanto, evidente la necessità che la legge garantisca nella famiglia la formazione di una volontà unitaria che si traduca in un indirizzo unitario ai fini del conseguimento dello scopo suddetto. Il sistema posto in essere dal legislatore quindi, sia pure risentendo indubbiamente della tradizione storica che ha visto nel padre il capo della famiglia, non ha fatto che provvedere alla descritta esigenza fondamentale quando ha affidato l'esercizio della potestà ad uno solo dei genitori.Ciò ovviamente non esclude la perfettibilità della soluzione adottata, nel senso di un sempre più stretto coordinamento della disciplina di questo essenziale settore della vita sociale col precetto costituzionale; ed anzi deve darsi atto della tendenza che in tale direzione si va attualmente manifestando nel mondo giuridico. D'altra parte, la parità morale e giuridica dei coniugi è garantita dall'art. 29 secondo comma della Costituzione "con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare". Il che vuol dire che il legislatore ordinario è appunto autorizzato ad individuare e codificare quelle limitazioni che siano obiettivamente necessarie ai fini delle fondamentali "esigenze di organizzazione della famiglia e che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza della unità familiare e della posizione della famiglia nella vita sociale" (sentenza n. 64 del 23 novembre 1961).Né varrebbe in proposito osservare, come fa il giudice a quo, che non potrebbe considerarsi costituzionalmente valido il sistema sancito dalle norme impugnate in quanto "l'unità" cui fa riferimento l'art. 29, secondo comma, della Costituzione sarebbe da intendere come una mera unitarietà di fatto della famiglia quale organismo, e non come unità di governo. Questa affermazione invero, in ultima analisi, porterebbe ad escludere dall'ambito dei limiti previsti dal citato art. 29, secondo comma, della Costituzione, e quindi a ritenere illegittima, qualsiasi regolamentazione che apprestasse nell'interno del nucleo familiare una disciplina unitaria di quelle situazioni che attengono al momento determinante degli indirizzi fondamentali circa il mantenimento, l'educazione e l'istruzione della prole, che costituiscono i compiti primari della famiglia, intesa come organismo sociale. Con ciò rimarrebbe elusa la già lumeggiata ed ineliminabile esigenza di un coerente e ben individuabile indirizzo al riguardo. Né ha ritenuto diversamente la Corte costituzionale con la sentenza n. 9 del 1964, che nell'ordinanza è richiamata a conforto della riferita obiezione, in quanto ivi la Corte ha affrontato un particolare aspetto del problema interpretativo del principio di eguaglianza dei coniugi in ordine alla limitazione del diritto di querela da parte del solo coniuge esercente la patria potestà in relazione al delitto di sottrazione di persone incapaci. Non possono perciò trarsi dalla dichiarazione di illegittimità di tale limitazione, essenzialmente fondata dalla Corte sul riconoscimento della esistenza di un interesse anche del genitore non esercente la patria potestà ad ottenere la punizione del colpevole, le conseguenze di ordine generale a favore dell'interpretazione restrittiva del concetto di unità della famiglia desunte dal giudice a quo. Le conclusioni che precedono non possono nemmeno essere scosse dal richiamo che nell'ordinanza di rinvio è fatto al criterio interpretativo enunciato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 46 del 1966, secondo cui il limite di cui all'art. 29, secondo comma, della Costituzione dovrebbe intendersi solo come eccezionale deroga al fondamentale principio di parità fra i coniugi, per cui non vi si potrebbe fare riferimento in un caso come quello in esame, che attiene a rapporti normali e continui quali sono quelli dell'esercizio della patria potestà, senza capovolgere il sistema, facendo dell'unità familiare il principio base e della eguaglianza dei coniugi una disposizione di applicazione eventuale e secondaria. Con la citata sentenza n. 46 del 1966, invero, la Corte, nel ribadire il limite posto dall'art. 29, secondo comma, della Costituzione ha effettivamente riconosciuto che esso rappresenta un'eccezione al principio di parità, da interpretarsi pertanto restrittivamente. Ma non può affermarsi che nella specie tale criterio interpretativo sia violato quando si riconosce che l'esigenza dell'unità familiare richiede l'adozione di una disciplina unitaria del momento determinativo dell'esercizio dei poteri-doveri inerenti alla patria potestà poiché, se è vero che nel concetto di limite è insito un aspetto di eccezionalità, è anche vero che non per questo è consentito snaturare l'essenza del limite medesimo interpretandone restrittivamente la portata fino al punto da svuotarlo di contenuto, come avverrebbe ove si ritenesse prevalente il principio di parità dei coniugi sulla necessità di tutelare l'unità della famiglia attraverso l'apprestamento di norme che garantiscano, come si è detto, la concreta possibilità di perseguire quello che è il fine principale della famiglia stessa. Concludendo, pertanto, poiché la prevalenza della volontà paterna nell'esercizio della patria potestà è conseguenza della sopraccennata esigenza unitaria, e siccome questa rientra indubbiamente fra i limiti della parità morale e giuridica dei coniugi di cui all'art. 29, secondo comma, della Costituzione, la Corte ritiene che l'impugnato art. 316 del Codice civile non si ponga in contrasto con il detto precetto costituzionale. Da quanto premesso consegue altresì che, nella specie, non può parlarsi di discriminazione a danno della madre fondata su distinzione di sesso, giacché non può ovviamente ravvisarsi una discriminazione nella imposizione legislativa di un limite costituzionalmente consentito, nel che appunto si risolve, per le esposte ragioni, la riconosciuta prevalenza della volontà del padre nell'esercizio della patria potestà. Egualmente deve escludersi il lamentato contrasto dell'art. 316 del Codice civile con l'art. 30 della Costituzione, che investe sostanzialmente buona parte degli aspetti concreti dell'esercizio della patria potestà e deve essere quindi, ovviamente, inteso il coordinamento con il precedente art. 29, per cui i limiti alla parità dei coniugi previsti da quest'ultima disposizione debbono necessariamente riflettersi anche sul contenuto dell'art. 30 suddetto. Le considerazioni che precedono sono integralmente valide anche in relazione all'altra norma impugnata, cioè all'art. 320 del Codice civile, che attribuisce al padre la rappresentanza dei figli nati e nascituri negli atti civili e l'amministrazione dei beni e costituisce quindi ulteriore manifestazione dell'accentramento nel padre dei compiti relativi agli interessi morali e materiali dei figli minori, offrendo pertanto profili identici a quelli illustrati in relazione alla norma fondamentale dell'art. 316 del Codice civile per quanto riguarda la valutazione della fondatezza della questione di legittimità costituzionale in esame.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale proposta, in riferimento agli artt. 3, 29 e 30 della Costituzione, con l'ordinanza del pretore di Imola del 7 gennaio 1966 nei riguardi degli artt. 316 e 320 del Codice civile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967. GASPARE AMBROSINI - ANTONINO PAPALDO - NICOLA JAEGER - GIOVANNI CASSANDRO - BIAGIO PETROCELLI - ANTONIO MANCA - ALDO SANDULLI - GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE VERZÌ - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI OGGIONI.
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