Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0102 del 1967 inserita nel sistema il 10/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.3 comma 1:
-Giustizia come convenienza: ragionevolezza strumentale
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.29 comma 2:
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)

N. 102
SENTENZA 26 GIUGNO 1967

Deposito in cancelleria: 8 luglio 1967.
Pubblicazione in "Gazzetta Ufficiale" n. 177 del 17 luglio 1967.
Pres. AMBROSINI - Rel. MORTATI

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente - Prof.
ANTONINO PAPALDO - Prof. NICOLA JAEGER - Prof. GIOVANNI CASSANDRO -
Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. ALDO SANDULLI -
Prof. GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO
MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ- Dott.
GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Dott. LUIGI OGGIONI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 316 e 320
del Codice civile, promosse con ordinanza emessa il 7 gennaio 1966 dal
pretore di Imola su ricorso di Carla Folli in Perrella, iscritta al n.
40 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 105 del 30 aprile 1966.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 10 maggio 1967 la relazione del
Giudice Costantino Mortati;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti,
per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto:

La signora Carla Folli in Perrella ha chiesto, con ricorso 4
dicembre 1965, al pretore di Imola, nella sua qualità di giudice
tutelare, di volere autorizzare l'acquisto da parte del figlio minore
Annibale di un'autovettura, utilizzando all'uopo la somma di cui
quest'ultimo disponeva. E poiché a tale acquisto si opponeva, nella
considerazione di non volersene assumere la responsabilità giuridica e
morale, il marito della ricorrente e padre del minore, costei proponeva
preliminarmente questione di legittimità costituzionale degli artt.
316 e 320 del Codice civile per violazione delle norme della
Costituzione sulla parità dei coniugi.
Il pretore, accertata la rilevanza della questione, l'ha ritenuta
non manifestamente infondata, nella considerazione che la
discriminazione fra i due coniugi in rapporto all'esercizio della
patria potestà sui figli minori, quale risulta dagli articoli
denunciati e dall'insieme delle altre disposizioni del Codice civile in
materia, non è ispirata alla salvaguardia del principio dell'unità
familiare, richiamato dall'art. 29 della Costituzione, ma invece alla
pura semplice considerazione della diversità del sesso, in contrasto
con l'art. 3 della Costituzione. Che ciò sia vero emerge, secondo il
pretore, dal rilievo che l'esercizio dei poteri consentiti alla madre
può riuscire limitato anche quando l'unità sia venuta meno. Il che
appare tanto più abnorme quando si tenga presente che le deroghe
all'esigenza della parità fra coniugi, affermata dal citato art. 29
della Costituzione, devono rivestire carattere eccezionale (come la
stessa Corte costituzionale ha riconosciuto), carattere che non sarebbe
rispettato ove la supremazia del marito si facesse valere anche in
confronto a rapporti normali e continui, quali sono quelli attinenti
all'esercizio della patria potestà. Osserva inoltre il pretore che
l'unità alla quale ha avuto riguardo l'art. 29 non è l'unità del
governo che si accentri in un solo soggetto, ma l'unitarietà di fatto
dell'organismo familiare, che non presuppone un capo (secondo sembra
sia stato riconosciuto dalla sentenza n. 9 del 1964 della Corte, che ha
considerato la famiglia nel suo insieme, quale titolare di rapporti
giuridici esercitabili sia dall'uno che dall'altro coniuge).
Si aggiunge nell'ordinanza che il sacrifizio del principio di
parità non potrebbe ritenersi giustificato dall'esigenza di prevenire
e risolvere i conflitti di volontà nel governo della famiglia poiché
tali conflitti sono rivelatori di una situazione eccezionale e
patologica, e quindi il criterio regolatore dei normali rapporti fra i
coniugi non può trarsi dalla detta abnorme eventualità. È invece
piuttosto da ritenere che i rapporti in parola riuscirebbero
pregiudicati proprio dal fatto che la moglie debba passivamente subire
la volontà del marito, senza potere vantare alcun titolo giuridico
neppure ad essere consultata.
Si prospetta altresì la gravità delle conseguenze derivabili
dalla sottrazione alla moglie di ogni potere nel governo della
famiglia, quando si tratti non già di superare l'opposizione del
marito ma di supplire ad una sua inerzia che risulti dannosa agli
interessi familiari.
Infine l'ordinanza fa rilevare il contrasto delle norme denunciate
con l'art. 30 della Costituzione che attribuisce ad entrambi i coniugi
parità nei doveri relativi al mantenimento, educazione ed istruzione
dei figli (parità che trova applicazione nell'assunzione di un'uguale
responsabilità per i danni cagionati dall'illecito dei figli minori
secondo stabilito nell'art. 2048 del Codice civile) e che dovrebbe
trovare corrispondenza nella parità dei diritti.
L'ordinanza regolarmente comunicata e notificata è stata
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105, del 30 aprile 1966.
Si è costituito nel giudizio avanti alla Corte il Presidente del
Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale
dello Stato, con deduzioni depositate il 22 marzo 1966.
In esse si pone anzitutto in rilievo l'esistenza di una distinzione
fra la patria potestà in senso stretto, di cui all'art. 316 del Codice
civile e la rappresentanza legale del minore regolata dall'art. 320,
primo comma, secondo risulterebbe comprovato fra l'altro, dalla dizione
dell'art. 337. Ma si riconosce che la distinzione non assume rilievo
decisivo per la soluzione della questione sollevata. Per tale soluzione
è invece da fare riferimento al limite che l'art. 29 pone al principio
della eguaglianza fra i sessi sancito nell'art. 3 per salvaguardare il
bisogno dell'unità della famiglia. Si osserva che, comunque si
interpreti l'unità familiare, è certo che, mentre nei casi normali
contribuisce al suo mantenimento anche la moglie, in quelli eccezionali
di disaccordo non può, per ragioni di natura, non affidarsi al marito
la decisione. Decisione che tuttavia trova i suoi limiti nelle
garanzie offerte dallo stesso Codice con le disposizioni di cui agli
artt. 330 e 334 del Codice civile.
Si contesta poi che sussista il contrasto con l'art. 30 della
Costituzione fatto valere dall'ordinanza, nella considerazione che
questo regola non i rapporti fra i coniugi ma quelli fra genitori e
figli da un lato, e fra genitori e Stato dall'altro.
Conclude chiedendo che sia dichiarata l'infondatezza della
questione.

Considerato in diritto:

1. - L'ordinanza denuncia la illegittimità costituzionale degli
artt. 316 e 320 del Codice civile nelle parti con cui attribuiscono al
marito l'esercizio della patria potestà, e rispettivamente la
rappresentanza dei figli in tutti gli atti civili nonché
l'amministrazione dei loro beni; accedendo così all'opinione secondo
cui questo secondo potere si connetta al primo come suo necessario
attributo, e che le due disposizioni siano fra loro così collegate che
dalla eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell'una
conseguirebbe necessariamente quella dell'altra. Non appare rilevante
esaminare le obiezioni mosse dall'Avvocatura dello Stato sulla
esattezza di tale modo di intendere il rapporto fra le due norme, che
viene invece da essa riguardato come riferentesi a funzioni fra loro
diverse, poiché, come la stessa Avvocatura riconosce, la soluzione del
dubbio non incide sulla questione sollevata. Quello che importa qui
osservare è che, o se si intenda il concetto di patria potestà in
senso ampio, comprensivo cioè di una serie di poteri indirizzati alla
protezione di interessi fra loro diversi, o invece in senso stretto
come uno dei settori in cui la funzione protettiva si esercita; e
quindi, anche a volere interpretare alcune delle norme in materia (come
per es. l'art. 337), nel senso che consentano la sottrazione al padre
di alcuni solamente dei poteri inerenti ai rapporti con la prole, senza
far venire meno l'esercizio degli altri rientranti nella patria
potestà, è certo comunque che il sistema del Codice è ispirato al
criterio di accentrare, di norma, nel marito l'esercizio di ogni specie
di compiti relativi agli interessi dei figli minori.
Ciò posto è da rilevare che, in sostanza, con l'ordinanza di
rinvio le norme impugnate vengono censurate in quanto porrebbero in
essere una violazione del principio di parità giuridica e morale dei
coniugi stabilita dall'art. 29, secondo comma, della Costituzione, e
sanzionando una distinzione fondata sul sesso, infrangerebbero anche il
principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione,
ponendosi altresì in contrasto con il successivo art. 30, che
attribuisce il dovere di mantenere, educare ed istruire i figli ad
entrambi i genitori.
2. - Deve osservarsi anzitutto, quanto all'art. 316 del Codice
civile, che la censura è infondata.
Ed invero la patria potestà, cioè quel complesso di poteri e di
doveri tendenti appunto al mantenimento, alla educazione ed alla
istruzione della prole, come alla cura dei relativi interessi
patrimoniali, è attribuita in modo congiunto ad entrambi i genitori,
così come risulta evidente dalla detta norma impugnata secondo cui "il
figlio è soggetto alla potestà dei genitori"; sicché ciascuno di
essi, quando esercita la potestà, lo fa "iure proprio". La madre
quindi, (mentre ha sempre il diritto-dovere di esercitare le funzioni
inerenti alla patria potestà, sia pure in conformità delle direttive
paterne) quando, nelle ipotesi previste dalla legge, viene
autonomamente chiamata a tale esercizio, assume la pienezza di un
potere di cui, peraltro, era già titolare. Con ciò, pertanto, può
escludersi senz'altro che alla madre venga conferita solo una potestà
puramente astratta e priva di pratica efficacia, come è invece
sostanzialmente affermato nell'ordinanza di rinvio.
visualizza testo argomento E se indubbiamente, secondo il sistema del Codice, è riconosciuta
una prevalenza della volontà del padre in ordine alle funzioni in
esame, è altresì vero che questa distinzione ripete la sua origine
dalla esigenza, comunemente avvertita in ogni umano consorzio, di
apprestare i mezzi per la formazione di una volontà unitaria
riferibile al consorzio stesso. Questa esigenza infatti non può
ritrovarsi anche nella società familiare che, pur essendo una
istituzione a base essenzialmente etica, è tuttavia un organismo
destinato a vivere ed operare nell'ambito dei concreti rapporti umani
per l'attuazione dei suoi fini sociali, primo fra i quali,
indubbiamente, emerge quello dell'allevamento e dell'educazione dei
figli. È, pertanto, evidente la necessità che la legge garantisca
nella famiglia la formazione di una volontà unitaria che si traduca in
un indirizzo unitario ai fini del conseguimento dello scopo suddetto.
Il sistema posto in essere dal legislatore quindi, sia pure risentendo
indubbiamente della tradizione storica che ha visto nel padre il capo
della famiglia, non ha fatto che provvedere alla descritta esigenza
fondamentale quando ha affidato l'esercizio della potestà ad uno solo
dei genitori.Ciò ovviamente non esclude la perfettibilità della soluzione
adottata, nel senso di un sempre più stretto coordinamento della
disciplina di questo essenziale settore della vita sociale col precetto
costituzionale; ed anzi deve darsi atto della tendenza che in tale
direzione si va attualmente manifestando nel mondo giuridico.
visualizza testo argomento D'altra parte, la parità morale e giuridica dei coniugi è
garantita dall'art. 29 secondo comma della Costituzione "con i limiti
stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare". Il che vuol
dire che il legislatore ordinario è appunto autorizzato ad individuare
e codificare quelle limitazioni che siano obiettivamente necessarie ai
fini delle fondamentali "esigenze di organizzazione della famiglia e
che, senza creare alcuna inferiorità a carico della moglie, fanno
tuttora del marito, per taluni aspetti, il punto di convergenza della
unità familiare e della posizione della famiglia nella vita sociale"
(sentenza n. 64 del 23 novembre 1961).Né varrebbe in proposito osservare, come fa il giudice a quo, che
non potrebbe considerarsi costituzionalmente valido il sistema sancito
dalle norme impugnate in quanto "l'unità" cui fa riferimento l'art.
29, secondo comma, della Costituzione sarebbe da intendere come una
mera unitarietà di fatto della famiglia quale organismo, e non come
unità di governo. Questa affermazione invero, in ultima analisi,
porterebbe ad escludere dall'ambito dei limiti previsti dal citato art.
29, secondo comma, della Costituzione, e quindi a ritenere illegittima,
qualsiasi regolamentazione che apprestasse nell'interno del nucleo
familiare una disciplina unitaria di quelle situazioni che attengono al
momento determinante degli indirizzi fondamentali circa il
mantenimento, l'educazione e l'istruzione della prole, che
costituiscono i compiti primari della famiglia, intesa come organismo
sociale. Con ciò rimarrebbe elusa la già lumeggiata ed ineliminabile
esigenza di un coerente e ben individuabile indirizzo al riguardo.
Né ha ritenuto diversamente la Corte costituzionale con la
sentenza n. 9 del 1964, che nell'ordinanza è richiamata a conforto
della riferita obiezione, in quanto ivi la Corte ha affrontato un
particolare aspetto del problema interpretativo del principio di
eguaglianza dei coniugi in ordine alla limitazione del diritto di
querela da parte del solo coniuge esercente la patria potestà in
relazione al delitto di sottrazione di persone incapaci. Non possono
perciò trarsi dalla dichiarazione di illegittimità di tale
limitazione, essenzialmente fondata dalla Corte sul riconoscimento
della esistenza di un interesse anche del genitore non esercente la
patria potestà ad ottenere la punizione del colpevole, le conseguenze
di ordine generale a favore dell'interpretazione restrittiva del
concetto di unità della famiglia desunte dal giudice a quo.
Le conclusioni che precedono non possono nemmeno essere scosse dal
richiamo che nell'ordinanza di rinvio è fatto al criterio
interpretativo enunciato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 46
del 1966, secondo cui il limite di cui all'art. 29, secondo comma,
della Costituzione dovrebbe intendersi solo come eccezionale deroga al
fondamentale principio di parità fra i coniugi, per cui non vi si
potrebbe fare riferimento in un caso come quello in esame, che attiene
a rapporti normali e continui quali sono quelli dell'esercizio della
patria potestà, senza capovolgere il sistema, facendo dell'unità
familiare il principio base e della eguaglianza dei coniugi una
disposizione di applicazione eventuale e secondaria.
Con la citata sentenza n. 46 del 1966, invero, la Corte, nel
ribadire il limite posto dall'art. 29, secondo comma, della
Costituzione ha effettivamente riconosciuto che esso rappresenta
un'eccezione al principio di parità, da interpretarsi pertanto
restrittivamente. Ma non può affermarsi che nella specie tale criterio
interpretativo sia violato quando si riconosce che l'esigenza
dell'unità familiare richiede l'adozione di una disciplina unitaria
del momento determinativo dell'esercizio dei poteri-doveri inerenti
alla patria potestà poiché, se è vero che nel concetto di limite è
insito un aspetto di eccezionalità, è anche vero che non per questo
è consentito snaturare l'essenza del limite medesimo interpretandone
restrittivamente la portata fino al punto da svuotarlo di contenuto,
come avverrebbe ove si ritenesse prevalente il principio di parità dei
coniugi sulla necessità di tutelare l'unità della famiglia attraverso
l'apprestamento di norme che garantiscano, come si è detto, la
concreta possibilità di perseguire quello che è il fine principale
della famiglia stessa.
Concludendo, pertanto, poiché la prevalenza della volontà paterna
nell'esercizio della patria potestà è conseguenza della sopraccennata
esigenza unitaria, e siccome questa rientra indubbiamente fra i limiti
della parità morale e giuridica dei coniugi di cui all'art. 29,
secondo comma, della Costituzione, la Corte ritiene che l'impugnato
art. 316 del Codice civile non si ponga in contrasto con il detto
precetto costituzionale.
Da quanto premesso consegue altresì che, nella specie, non può
parlarsi di discriminazione a danno della madre fondata su distinzione
di sesso, giacché non può ovviamente ravvisarsi una discriminazione
nella imposizione legislativa di un limite costituzionalmente
consentito, nel che appunto si risolve, per le esposte ragioni, la
riconosciuta prevalenza della volontà del padre nell'esercizio della
patria potestà.
Egualmente deve escludersi il lamentato contrasto dell'art. 316 del
Codice civile con l'art. 30 della Costituzione, che investe
sostanzialmente buona parte degli aspetti concreti dell'esercizio della
patria potestà e deve essere quindi, ovviamente, inteso il
coordinamento con il precedente art. 29, per cui i limiti alla parità
dei coniugi previsti da quest'ultima disposizione debbono
necessariamente riflettersi anche sul contenuto dell'art. 30 suddetto.
Le considerazioni che precedono sono integralmente valide anche in
relazione all'altra norma impugnata, cioè all'art. 320 del Codice
civile, che attribuisce al padre la rappresentanza dei figli nati e
nascituri negli atti civili e l'amministrazione dei beni e costituisce
quindi ulteriore manifestazione dell'accentramento nel padre dei
compiti relativi agli interessi morali e materiali dei figli minori,
offrendo pertanto profili identici a quelli illustrati in relazione
alla norma fondamentale dell'art. 316 del Codice civile per quanto
riguarda la valutazione della fondatezza della questione di
legittimità costituzionale in esame.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
proposta, in riferimento agli artt. 3, 29 e 30 della Costituzione, con
l'ordinanza del pretore di Imola del 7 gennaio 1966 nei riguardi degli
artt. 316 e 320 del Codice civile.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 26 giugno 1967.
GASPARE AMBROSINI - ANTONINO PAPALDO
- NICOLA JAEGER - GIOVANNI CASSANDRO
- BIAGIO PETROCELLI - ANTONIO MANCA -
ALDO SANDULLI - GIUSEPPE BRANCA -
MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI
- GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE
VERZÌ - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO -
LUIGI OGGIONI.

 
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