N. 44 SENTENZA 30 APRILE 1968 Depositato in cancelleria: 14 maggio 1968. Pubblicazione in "Gazz. Uff.le" n. 127 del 18 maggio 1968. Pres. SANDULLI - Rel. MORTATI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. ALDO SANDULLI, Presidente - Prof. BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), promossi con tre ordinanze emesse il 10 marzo 1966 dalla Corte suprema di cassazione - sezioni unite civili - sui ricorsi del Ministro di grazia e giustizia e del Presidente del Consiglio superiore della magistratura per regolamento preventivo di giurisdizione in ordine ai ricorsi proposti al Consiglio di Stato dai magistrati Roperti Modesto, Aliotta Empedocle, Zuliani Giuseppe, Schinzari Renato e Lania Pietro, iscritte ai nn. 201, 202, 203 del Registro ordinanze 1966 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 12 novembre 1966. Visto l'atto di costituzione del Ministro di grazia e giustizia; udita nell'udienza pubblica del 1 aprile 1968 la relazione del Giudice Costantino Mortati; udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Ministro di grazia e giustizia.
Ritenuto in fatto:
1. - Con ricorso al Consiglio di Stato il dott. Modesto Roperti, Presidente del Tribunale di Catanzaro, impugnava per violazione di legge ed eccesso di potere il decreto ministeriale 11 febbraio 1961, col quale era stata attuata la deliberazione 26 gennaio 1961 del Consiglio superiore della magistratura di modificazione a suo danno della graduatoria del concorso per titoli a trentaquattro posti di magistrato di cassazione, ed altresì la deliberazione stessa. Prima che su tale impugnazione intervenisse alcuna decisione, il Ministro di grazia e giustizia proponeva regolamento preventivo di giurisdizione, ai sensi dell'art. 41 del Codice di procedura civile, deducendo che, in precedenti decisioni del 14 marzo 1962, la IV Sezione del Consiglio di Stato aveva affermato la propria giurisdizione sui ricorsi rivolti contro i decreti presidenziali e ministeriali emessi in attuazione di deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ai sensi dell'art. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, nonché su queste deliberazioni, e poiché le pronuncie emesse si fondavano su presupposti non compatibili col principio dell'indipendenza e dell'autonomia della magistratura, deduceva il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato, sostenendo anzitutto che l'art.17 predetto dev'essere interpretato nel senso di ammettere il ricorso a detto organo solo per i vizi inerenti ai decreti che adottano le deliberazioni del Consiglio superiore, non già per gli altri che fossero fatti valere nei riguardi di queste ultime, mentre con diversa interpretazione si dovrebbero ammettere, ciò che invece non è ammissibile, che cioè l'atto del Consiglio superiore sia meramente preparatorio del provvedimento dell'esecutivo, oppure che il Consiglio di Stato abbia giurisdizione sugli atti amministrativi che siano tali in senso soltanto oggettivo, ammettere cioè principi contrastanti con la Costituzione. La difesa del dott. Roperti presentava un controricorso nel quale, mentre ribatteva le argomentazioni dedotte nel ricorso avanti all'organo di giustizia amministrativa, e ne chiedeva il rigetto, formulava, in via subordinata, la richiesta di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, muovendo dalla considerazione che se l'art. 17 dovesse essere interpretato nel modo suggerito nel ricorso allora tale norma realizzerebbe una violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione e dovrebbe essere sollevata una corrispondente questione di legittimità costituzionale. Le sezioni unite della Cassazione, con sentenza parziale del 10 marzo 1966 statuivano che l'art. 17 doveva interpretarsi nel senso di consentire il ricorso al Consiglio di Stato non solo per i vizi propri dei decreti presidenziali o ministeriali, ma anche per quelli delle deliberazioni stesse respingendo conseguenzialmente il motivo del ricorso relativo all'interpretazione dell'articolo predetto. Con ordinanza in pari data le stesse sezioni unite ritenevano rilevante per la decisione della causa la questione relativa alla costituzionalità della competenza attribuita al Consiglio di Stato dall'articolo citato, con riferimento agli artt. 100, primo comma, 104, 105, 24, primo comma, 103 e 102, secondo comma, prima parte, della Costituzione, e la consideravano non manifestamente infondata sulla base delle seguenti considerazioni. In primo luogo, se appare pacifica la natura oggettivamente amministrativa del provvedimenti del Consiglio superiore (affermata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 168 del 1963), tutt'altro che certo appare invece che essi provengano da un organo della pubblica amministrazione, e che quindi sussista in confronto ai provvedimenti stessi il requisito dell'atto anche soggettivamente amministrativo, richiesto per la loro assoggettabilità al sindacato del Consiglio di Stato. Muovendo critiche alla giurisprudenza di tale consesso, quale risulta dalle decisioni in materia del 1962 e del 1965, rileva che, se non mancano esempi nei quali un organo di un potere dello Stato assume, per determinate funzioni, la qualità di organo di un altro potere, ciò non può ritenersi per il Consiglio superiore, rispetto al quale la volontà del costituente fu indubbiamente di creare un organo supremo dello Stato, autonomo ed indipendente da ogni altro potere (art. 104, primo comma, della Costituzione). Ciò premesso, l'ordinanza contesta che le deliberazioni del Consiglio superiore siano qualificabili come atti preparatori del decreto presidenziale o ministeriale, dato che la relativa competenza spetta esclusivamente al Consiglio superiore ai sensi dell'art. 105 della Costituzione, sicché l'elemento sostanziale è dato unicamente dalla deliberazione del Consiglio superiore, la quale costituisce un atto dotato di una propria autonomia, necessariamente rilevante anche ai fini dell'impugnazione, mentre il decreto dell'esecutivo integra soltanto il requisito formale del provvedimento. Esaminando poi problematicamente l'assoggettabilità delle deliberazioni del Consiglio superiore alla disciplina generale degli atti amministrativi, la Corte osserva che l'eventuale soluzione negativa di questo problema importerebbe la necessità di affrontare quello relativo all'ammissibilità di una tutela giurisdizionale, ai sensi dell'art. 24, primo comma, della Costituzione, rispetto agli atti oggettivamente amministrativi, posti in essere dai supremi organi dello Stato, ed in particolare dal Consiglio superiore della magistratura. Ma, d'altra parte, ove dovesse ammettersi la sindacabilità delle deliberazioni del Consiglio superiore al di fuori della normale disciplina degli atti amministrativi, e indipendentemente da essa, sorgerebbe l'ulteriore problema di stabilire se sia costituzionalmente legittimo che l'art. 17 in esame, attribuendo tale sindacato alla competenza del Consiglio di Stato - laddove l'art. 103, primo comma, circoscrive questa forma di tutela giurisdizionale soltanto nei confronti della pubblica amministrazione - non comporti l'istituzione di una giurisdizione speciale, in violazione dell'art. 102, secondo comma, prima parte, della Costituzione. In conseguenza di tali considerazioni le sezioni unite hanno disposto la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Dopo che l'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966; si è costituito avanti la Corte costituzionale il Ministero di grazia e giustizia, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato. Questa, in data 30 novembre 1966, ha presentato deduzioni in cui, innanzi tutto, fa rilevare che l'interpretazione adeguatrice dell'art. 17, secondo comma, che era stata da essa proposta nelle precedenti fasi del giudizio, se pure è stata respinta dalla Corte di cassazione, rimane sempre aperta ai poteri interpretativi della Corte costituzionale. Ciò premesso, l'Avvocatura sottolinea il carattere di organo costituzionale da riconoscere al Consiglio superiore, in quanto spetta ad esso, come strumento di autogoverno della magistratura, garantirne l'autonomia e l'indipendenza di fronte agli altri poteri, in applicazione del principio fondamentale della divisione del poteri. Deduce da ciò che i suoi atti non sono atti meramente preparatori inseriti in un procedimento, che trovi nella decretazione presidenziale o ministeriale l'atto finale di decisione, costituendo invero esercizio del potere deliberante spettante in proprio ed esclusivamente ad esso Consiglio (come si ricava anche dalla sentenza delle sezioni unite della Cassazione del 3 febbraio 1917). Passando poi a considerare i requisiti richiesti per gli atti sottoponibili al sindacato del Consiglio di Stato osserva che non esiste una nozione di atto "oggettivamente amministrativo", che sia tale naturaliter, e comunque essa non può essere presa a base per individuare quali atti siano impugnabili con ricorso al Consiglio di Stato, richiedendosi per qualificare l'atto come amministrativo ai fini di tale ricorso che sussista anche l'elemento soggettivo. Osserva che non sussistono nel nostro ordinamento esempi di atti assoggettati al potere di sindacato giudiziario in base alla natura delle funzioni esercitate. Ed aggiunge, con riferimento agli artt. 100, 103 e 113 della Costituzione, che la giurisdizione del Consiglio di Stato è rigorosamente circoscritta alla tutela degli interessi legittimi (ed in taluni casi del diritti soggettivi) nei confronti della pubblica amministrazione, sicché l'estensione di questa ad atti non emanati da organi della medesima si risolverebbe in una violazione dell'art. 102, secondo comma, prima parte, della Costituzione, che vieta l'istituzione di nuove giurisdizioni speciali. Passando poi a considerare l'obiezione che si vorrebbe desumere dall'art. 24, fa osservare che, a meno che non sussista un'espressa previsione costituzionale, si deve escludere l'assoggettamento alla giurisdizione degli atti degli organi primari dello Stato, rispetto ai quali il solo rimedio esperibile è quello del conflitto di attribuzioni. Nella specie rimedi specifici nei confronti di lesioni di situazioni soggettive, in dipendenza di deliberazioni delle commissioni del Consiglio superiore, sono previste dalla legge in esame che ammette il ricorso al plenum avverso le dette deliberazioni. Fa considerare inoltre che l'art. 24 vieta gli impedimenti esterni all'esercizio del diritto di azione, ma non impone che siano rese azionabili tutte le specie di pretese giuridiche, anche quando non esista, e non possa esistere come nella specie, una sede dell'eventuale giudizio. Conclude chiedendo che sia dichiarata la fondatezza della questione sollevata. 2. - Con ricorso del 14 marzo 1960 il dott. Giuseppe Zuliani, magistrato di Tribunale con funzioni di pretore impugnava avanti il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale i provvedimenti con i quali era stato per due volte ritenuto impromuovibile e conseguentemente dispensato dal servizio. L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Ministero, concludeva in via principale perché fosse dichiarato il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato e, subordinatamente, per il rigetto del ricorso. Con sentenza 14 marzo 1962, n. 250, la IV sezione del Consiglio di Stato affermava la propria giurisdizione e, riservata la pronuncia sul merito e sulle spese, ordinava il deposito di una serie di atti. Avverso tale decisione il Ministero proponeva ricorso per regolamento di giurisdizione sulla base di argomentazioni analoghe a quelle contenute nel ricorso che ha dato luogo all'ordinanza n. 201 Registro ordinanze 1966. Nel controricorso la difesa della parte privata faceva rilevare che, poiché l'unico atto con rilevanza esterna nei procedimenti in questione è il decreto presidenziale o ministeriale, bene il legislatore l'ha reso impugnabile per appagare l'esigenza di tutelare i diritti e gli interessi del magistrati garantiti dalla Costituzione, come risulta anche dall'esame del lavori preparatori della legge. Circa la questione di legittimità costituzionale prospettata ipoteticamente nel ricorso, la parte privata osservava che, se la si voleva porre, essa doveva essere affrontata nella sua sede propria e si pronunciava nettamente contro l'intento, che attribuiva alla parte avversa, di modificare l'art. 17 in via di interpretazione. La Corte suprema ha pronunciato anche in questa causa una sentenza parziale ed una ordinanza che, nella motivazione in diritto, sono identiche a quelle viste in relazione all'ordinanza n. 201 Registro ordinanze 1966. Dopo che l'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966, vi è stata costituzione avanti alla Corte solo dell'Avvocatura generale dello Stato in rappresentanza del Ministero di grazia e giustizia, la quale, il 30 novembre 1966, ha presentato deduzioni la cui motivazione è identica a quella delle deduzioni esaminate a proposito dell'ordinanza n. 20 Registro ordinanze 1966. 3. - Con ricorso in data 11 giugno 1964 il dott. Renato Schinzari, magistrato di corte di appello impugnava avanti il Consiglio di Stato la deliberazione del Consiglio superiore della magistratura dell'11 marzo 1964 con la quale era stato respinto un ricorso da lui proposto avverso la deliberazione 14 dicembre 1963 della commissione di scrutinio per la promozione a magistrato di cassazione, con la quale egli era stato escluso dallo scrutinio stesso. Prima che su tale ricorso intervenisse la decisione, con ricorso 21 giugno 1965, il Presidente del Consiglio superiore della magistratura ed il Ministro di grazia e giustizia, proponevano regolamento di giurisdizione, deducendo motivi a quelli contenuti nei ricorsi che hanno dato luogo alle ordinanze precedentemente esaminate. Le parti private non si costituivano avanti la Corte suprema di cassazione e la causa aveva uno svolgimento parallelo alle altre due. Dopo la notifica, comunicazione e pubblicazione dell'ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966 si è costituito davanti alla Corte costituzionale il Ministro di grazia e giustizia per il quale, il 30 novembre 1966, l'Avvocatura generale dello Stato ha presentato deduzioni identiche, nella motivazione in diritto, a quelle viste in relazione alle ordinanze n. 201 e 202, Registro ordinanze 1966. Anche in questo giudizio le parti private non si sono costituite avanti la Corte costituzionale. 4. - Con memoria depositata il 15 marzo 1968 l'Avvocatura generale ha ulteriormente illustrato le proprie deduzioni, osservando che il punctum dolens della questione sta nell'antinomia esistente fra due esigenze che sono state ambedue tenute presenti dalle disposizioni costituzionali: quella derivante dalla necessità di assicurare l'autonomia e l'indipendenza dell'ordine giudiziario da ogni altro potere dello Stato, e quella di accordare a tutti la tutela giurisdizionale del diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Tale antinomia, secondo il deducente, dovrebbe essere risolta escludendo in ogni caso la ricorribilità delle delibere consiliari avanti il Consiglio di Stato per l'assoluta sua incompetenza in materia e ravvisando una idonea garanzia del diritti e degli interessi del magistrati nella possibilità di reclamo al plenum del Consiglio, che giudica anche in merito in tema di scrutini, mentre in materia di concorsi è giudice della legittimità. Dopo avere richiamato anche altri argomenti già svolti nelle precedenti scritture difensive, la difesa del Ministero insiste nelle conclusioni precedentemente assunte. 5. - Nella discussione orale ha illustrato i motivi già dedotti e confermate le richieste formulate.
Considerato in diritto:
1. - Le tre cause, avendo lo stesso oggetto, devono essere riunite e decise con unica sentenza. 2. - L'Avvocatura dello Stato, nel richiamare le vicende del processo svoltosi avanti alle sezioni unite della Suprema Corte di cassazione, ha riaffermato la validità dell'interpretazione da essa data in quella sede al secondo comma dell'art 17 in questione, nel senso che questo limiti l'impugnativa avanti al Consiglio di Stato solo ai vizi relativi agli atti emanati degli organi dell'Esecutivo, non già agli altri costituiti dalle statuizioni del Consiglio superiore della magistratura (ciò che, se esatto, farebbe venire meno la censura di incostituzionalità sollevata) e fa osservare, quanto del resto era ovvio, che cioè la contraria opinione della Cassazione ha lasciato integra la funzione interpretativa spettante a questa Corte. Il riesame compiuto di tale punto ha però condotto la Corte a ritenere che nessun altro significato, diverso da quello accolto dalla Cassazione, potrebbe attribuirsi alla citata disposizione. Infatti, mettendo a raffronto i primi due comma dell'art. 17 si rileva agevolmente come i "provvedimenti", cui ha riguardo il secondo, siano quegli stessi considerati dal precedente, ed essi risultano tanto dalle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura quanto dal decreto che le adotta; sicché il ricorso cui, con formulazione generica, la disposizione fa riferimento non può non assumere a suo oggetto sia l'una che l'altra parte dei provvedimenti stessi. Ciò risulta confermato dall'ultimo comma che, con analoga formula, dispone, contro quegli fra essi riguardanti la materia disciplinare, l'impugnativa avanti alla Cassazione, per la quale nessun dubbio sorge, ne è stato mai fatto valere, circa la sua estensione a vizi, e del contenuto e della forma. 3. - Per accertare la fondatezza della tesi sostenuta dall'Avvocatura, secondo cui gli atti del Consiglio superiore della magistratura relativi allo stato del magistrati devono rimanere sottratti a qualsiasi sindacato della loro legittimità ad opera di organi ad esso estranei, occorre richiamarsi anzitutto alla funzione conferita dalla Costituzione al detto organo. Risulta dal suo art. 104 che l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura ha corrisposto all'intento di rendere effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l'autonomia della magistratura, così da collocarla nella posizione di "ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere", e conseguentemente sottrarla ad interventi suscettibili di turbarne comunque l'imparzialità e di compromettere l'applicazione del principio consacrato nell'art. 101, secondo cui i giudici sono soggetti solo alla legge. Si è così provveduto (ad integrazione e rafforzamento delle altre garanzie costituzionali di indipendenza, quali risultano dalla riserva di legge (art. 108), dall'assunzione del magistrati, in via normale, mediante pubblico concorso (art. 106), dall'inamovibilità (art. 107) a concentrare ogni provvedimento relativo al reclutamento e allo stato degli appartenenti all'ordine nella competenza assoluta ed esclusiva idi un organo che, mentre realizza una particolare forma di autonomia, pel fatto di essere espresso in prevalenza dallo stesso corpo giudiziario, è poi presieduto dal Capo dello Stato, in considerazione della qualità che questi riveste di potere "neutro" e di garante della Costituzione, ed è altresì fornito di una serie di guarentigie corrispondenti al rango spettantegli, nella misura necessaria a preservarlo da influenze che, incidendo direttamente sulla propria autonomia, potrebbero indirettamente ripercuotersi sull'altra affidata alla sua tutela. Non è rilevante, al fine che qui interessa della determinazione dell'ambito di insindacabilità dei suoi atti, stabilire la natura del rapporto sussistente fra il Consiglio superiore della magistratura e la magistratura, per precisare se esso sia da considerare organo di questa e quindi parte dell'ordine giudiziario, o invece organo a sé stante, o addirittura distinto potere. Mentre non è contestabile la diversità oggettiva delle funzioni rispettivamente esercitate: giurisdizionali le une, amministrative le altre (non apparendo dubbia l'appartenenza a quest'ultima categoria delle misure disposte nei casi concreti, in applicazione delle norme relative all'assunzione ed alla carriera del magistrati), non incontra poi difficoltà ammettere che le rispettive attività possono rimanere assoggettate a differenti trattamenti. Neppure necessario appare prendere posizione sul punto se il rango da riconoscere al Consiglio sia quello proprio di organo costituzionale, dato che il sistema vigente conosce del casi di assoggettamento al controllo giurisdizionale di atti provenienti da organi indubbiamente costituzionali. Sicché l'eventuale attribuzione della qualifica predetta non offrirebbe un criterio idoneo a risolvere la questione. 4. - Il problema è quindi da prospettare in termini diversi, dovendosi chiedere se (in assenza di specifiche statuizioni al riguardo) il buon adempimento della funzione strumentale affidata al Consiglio superiore della magistratura esiga la sua sottrazione ad ogni interferenza, non solo del poteri attivi (ed in ispecie di quello esecutivo, cui in passato la magistratura era stata collegata, ed a volte anche gerarchicamente subordinata, e rispetto al quale quindi l'esigenza di autonomia si era tradizionalmente fatta valere) ma anche del potere giurisdizionale, in quanto dovesse risultare che, se pure limitata all'esercizio del solo controllo di legittimità, sia tale, da potere, indirettamente, pregiudicare l'esercizio imparziale dell'amministrazione della giustizia. Secondo l'Avvocatura dello Stato deve considerarsi vana impresa cercare un giudice idoneo a conoscere degli atti degli organi primari dello Stato, in ordine ai quali il solo strumento utilizzabile sarebbe quello del conflitto di attribuzione. A parte l'inesattezza del rilievo quando sia così genericamente formulato, è agevole osservare che tale rimedio potrebbe, se mai, giovare solo indirettamente alla tutela del diritti ed interessi del magistrati, mentre non la potrebbe mai far conseguire quando la lesione dei medesimi provenga dall'attività dello stesso Consiglio. Rendendosi conto di ciò l'Avvocatura sostiene che il solo rimedio possibile contro lesioni di tal genere sarebbe il ricorso dalle commissioni all'adunanza plenario del Consiglio superiore della magistratura. Ciò sulla base di un presunto principio di autonomia ricavabile dall'ordinamento, che dovrebbe condurre a sottrarre gli atti degli organi supremi dello Stato, incidenti sulle situazioni giuridiche di determinati soggetti ad essi appartenenti o dai medesimi dipendenti, alle comuni giurisdizioni, per affidarli ad un sindacato esercitabile esclusivamente ad opera degli organi medesimi. Si è già osservato come non sussistano nel nostro ordinamento regole che possano considerarsi applicabili a tutti gli organi cui la Costituzione conferisce una posizione di indipendenza. Gli esempi di tale specie di "autocrinia" offerti dal diritto positivo riguardano organi fra loro assai diversi per natura, posizione, funzioni, risultano da differenti fasi attraversate dall'organizzazione dello Stato, riflettendo in parte esigenze non tutte attuali, e pertanto non si rende possibile all'interprete, nel silenzio di disposizioni specifiche, ricavare da essi elementi sufficienti per giungere ad ammettere un regime giuridico tipico unitario, sottratto, quale diritto speciale, a quello comune, e per giunta fornito di efficacia costituzionale. In ogni caso, anche se si potesse accertare la presenza di un principio siffatto, sarebbe da osservare che la disciplina eccezionale dal medesimo derivabile riguarderebbe il trattamento giuridico dei componenti o dei dipendenti degli organi investiti di tale prerogativa, sicché, se una sua estensione analogica potesse ammettersi, dovrebbe rimanere limitata agli atti del Consiglio superiore della magistratura aventi un medesimo contenuto, non mai estendersi a quelli riguardanti soggetti ad esso estranei, come sono i magistrati. Si deve poi aggiungere che, non rivestendo il Consiglio superiore della magistratura indole, né possedendo struttura di organo giurisdizionale, il reclamo proposto al plenum, anche se fosse configurabile nei termini prospettati dall'Avvocatura (il che non è), non varrebbe a soddisfare l'imperativo dell'art. 24, che vuole assicurata la difesa "in giudizio", cioè avanti ad un giudice, e con il debito procedimento legale (secondo la Corte ha statuito con la sentenza n. 66 del 1964). Né può dirsi, come si sostiene, che dall'articolo in parola si ricavi solo il divieto di impedimenti esterni all'esercizio dell'azione giudiziaria, poiché la sua portata è ben più vasta. E del pari priva di valore è l'affermazione secondo cui l'applicazione dell'art. 24 presuppone l'esistenza di una giurisdizione competente, dato l'evidente circolo in cui essa si involge, fino a quando non si fornisca la dimostrazione (come si è visto, non deducibile dal sistema) che competente possa essere solo lo stesso Consiglio superiore della magistratura. Si può aggiungere che non si renderebbe neppure possibile alla legge ordinaria conferire al Consiglio superiore della magistratura, al fine di cui si parla, la necessaria veste e funzione giurisdizionale, che attualmente fa difetto, ponendo a ciò ostacolo l'art. 102, secondo comma. Sicché, a voler seguire la tesi confutata, si dovrebbe essere indotti a constatare la presenza di una lacuna, in nessun modo colmabile se non con legge costituzionale, rimanendo nel frattempo sospesa la garanzia generale di tutela giurisdizionale posta dall'art. 24. Non può sfuggire la gravità di una conclusione di tal fatta che condurrebbe ad escludere la tutela giurisdizionale, voluta assicurare a "tutti", in conformità di un principio coessenziale ad ogni tipo di Stato di diritto, per una intera categoria di cittadini, e cioè per tutti gli appartenenti alla magistratura, che rimarrebbero indifesi di fronte a possibili (se pure, è da presumere, eccezionali) violazioni di legge da parte del Consiglio superiore della magistratura, lesive del propri diritti o interessi legittimi. 5. - Se si muova dalla considerazione, che non sembra contestabile, secondo cui la sottoposizione delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura ad un controllo di stretta legittimità da parte di un organo appartenente al potere giurisdizionale non sia, di per sé, tale da condurre necessariamente a vanificare o comunque ad attenuare l'efficacia della funzione garantista cui esse adempiono, la questione si riduce ad accertare la fondatezza dell'ostacolo che il diritto positivo, secondo la difesa del Ministero, oppone all'esercizio del sindacato sugli atti in parola da parte della giurisdizione cui l'art. 113 affida la tutela del diritti ed interessi legittimi. L'ostacolo eccepito è quello fatto derivare dalla parte dell'articolo predetto che limita agli atti della pubblica amministrazione la tutela medesima, e che, messo in relazione con i precedenti artt. 102 e 103, deve intendersi circoscritto solo agli interventi della giurisdizione amministrativa, mentre per quella ordinaria è da farsi valere il carattere della generalità della competenza ad essa inerente, e di conseguenza l'eliminazione del limite menzionato. Tuttavia il deferimento che, sulla base di tali considerazioni, volesse farsi a quest'ultima giurisdizione dei ricorsi del magistrati, in deroga ai principi, che concentrano nel giudice amministrativo, nella materia del pubblico impiego, quale è quella de qua, ogni specie di tutela sia dei diritti che degli interessi, oltre a suscitare il problema discendente dalle restrizioni di tutela che, almeno secondo la legislazione vigente, ineriscono ai poteri ad essa consentiti, fa sorgere gravi perplessità, data la confluenza che verrebbe a verificarsi negli appartenenti allo stesso "ordine", di destinatari dei provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura e di giudici della regolarità del medesimi. Ma ogni approfondimento su questo punto appare ultroneo, almeno fino a quando non si accerti la fondatezza dell'eccezione sollevata nei confronti della norma denunciata, che affida esclusivamente al Consiglio di Stato la competenza in discorso. La difficoltà che all'applicazione nella specie del citati articoli della Costituzione oppone il carattere rivestito dal Consiglio superiore della magistratura, cioè di organo che, pure espletando funzioni solamente di indole amministrativa, non è parte della pubblica amministrazione (in quanto rimane estraneo al complesso organizzativo che fa capo direttamente, o al Governo dello Stato o a quello delle Regioni, ed all'altro cui dà vita l'amministrazione indiretta, collegato al primo attraverso l'esercizio di forme varie di controllo ad esso attribuite), non può essere superata attraverso l'asserzione, contenuta in alcune decisioni del Consiglio di Stato, del carattere preparatorio da assegnare all'attività di detto organo rispetto a quella esplicata con l'emanazione dei decreti previsti dall'art. 17, i quali quindi, secondo detta tesi, dovrebbero considerarsi costitutivi degli effetti giuridici riguardanti i magistrati che ne sono destinatari. Infatti l'opinione riferita è contrastata dalla chiara dizione degli artt. 105, 106, 107, 110 della Costituzione, i quali attribuiscono proprio alla sola competenza del Consiglio superiore della magistratura tutti i provvedimenti di stato comunque riguardanti i magistrati, secondo poi è specificato dall'art. 10 e successivi della legge n. 195 del 1958, emessa in attuazione del precetto costituzionale, che fanno riferimento ai poteri "deliberanti" dell'organo medesimo. Deriva da ciò che, una volta avvenuta la comunicazione del singoli atti di esercizio di tali poteri, si determina un dovere giuridico a carico dell'Esecutivo di renderli concretamente operanti mediante l'emanazione di appositi decreti che ne adottino integralmente il contenuto. Pertanto le dette deliberazioni, se nei confronti dei loro destinatari e dei terzi esplicano effetti solo dalla data di emanazione del decreti, nei rapporti invece con gli organi esecutivi sono, dal momento stesso della loro comunicazione a questi ultimi, produttivi della pretesa da parte dell'organo deliberante alla loro adozione. Ed evidentemente sulla base di tali presupposti la Corte, con la sentenza n. 168 del 1963, ha potuto ritenere infondata la censura che era stata rivolta all'art. 17 pel fatto di avere attribuito ad organi estranei l'emanazione delle pronuncie del Consiglio superiore della magistratura, dato che questo resta ovviamente del tutto libero nelle sue determinazioni. 6. - È però da chiedere se, una volta accertato che tali deliberazioni siano da imputare al Consiglio superiore della magistratura, cioè ad un organo estraneo alla pubblica amministrazione, ne debba discendere l'inammissibilità del sindacato, riservato agli atti provenienti da quest'ultima, su ricorso al Consiglio di Stato, qual'è previsto dalla norma impugnata. La risposta al quesito può essere desunta (anche all'infuori di ogni approfondimento circa l'ambito da assegnare al concetto di pubblica Amministrazione, al fine della proponibilità del ricorso anzidetto) da quanto risulta dalla sentenza n. 168 prima citata , nella parte in cui è messa in rilievo la funzione che è da ritenere affidata ai decreti dell'Esecutivo, di conferire cioè alle decisioni dell'organo deliberante la forma che, sulla base dei principi fondamentali del sistema, è prescritta per i provvedimenti aventi indole sostanzialmente amministrativa. Ciò è stato statuito dalla Corte non ai soli fini della sottoposizione dei decreti stessi al controllo finanziario, come assume l'Avvocatura, ma "anche" a tal fine, e quindi, più generalmente, alle varie specie di sindacato destinate ad assicurarne il contenimento nell'ambito dell'ordine legale. Risulta, pertanto, che nessuna violazione dell'art. 113 della Costituzione può derivare dall'esperimento del rimedio consentito dal secondo comma dell'art. 17. 7. - Rimane da esaminare un ultimo motivo di incostituzionalità, che l'ordinanza, in via subordinata, propone desumendolo dall'art. 102 della Costituzione, nella considerazione che, attribuendosi al Consiglio di Stato la competenza a sindacare atti non emanati dal potere esecutivo, si viene a dar vita ad una nuova giurisdizione speciale, in contrasto con il divieto posto da detta disposizione. L'eccezione deve ritenersi superata da quanto prima si è osservato circa la funzione assegnata al decreto di adozione della deliberazione consiliare, poiché è chiaro che l'attribuzione di nuove competenze, cui sia da riconoscere la stessa indole di quelle proprie di un organo giurisdizionale, non può mai ricadere sotto la detta prescrizione. Per ritenere il contrario bisognerebbe presupporre che il sindacato de quo reagisca, alterandola, sulla essenza della funzione che caratterizza l'organo di controllo: il che, come si è visto, non si verifica.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, recante norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, proposta con le ordinanze delle sezioni unite civili della Corte suprema di tassazione indicate in epigrafe, in relazione agli artt. 100, primo comma, 104, 105, 24, primo comma, 103, 102, secondo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 aprile 1968. ALDO SANDULLI - BIAGIO PETROCELLI - ANTONIO MANCA - GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE VERZÌ - GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO MICHELE TRIMARCHI.
| |