Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0044 del 1968 inserita nel sistema il 10/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Argomenti di altre disposizioni rilevanti per la pronuncia:
-Argomento della coerenza (orizzontale: interlegislativo)
-Argomento letterale (considerazioni di ordine sintattico grammaticale)
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.100 comma 1:
-Argomento ab absurdo (argomento apagogico)
Disposizione parametro: Costituzione della Repubblica art.104:
-Argomento teleologico (ipotesi del legislatore provvisto di fini)

N. 44
SENTENZA 30 APRILE 1968
Depositato in cancelleria: 14 maggio 1968.
Pubblicazione in "Gazz. Uff.le" n. 127 del 18 maggio 1968.
Pres. SANDULLI - Rel. MORTATI

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. ALDO SANDULLI, Presidente - Prof.
BIAGIO PETROCELLI - Dott. ANTONIO MANCA - Prof. GIUSEPPE BRANCA -
Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE
CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
- Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO
DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof.
VINCENZO MICHELE TRIMARCHI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 17,
secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della
magistratura), promossi con tre ordinanze emesse il 10 marzo 1966 dalla
Corte suprema di cassazione - sezioni unite civili - sui ricorsi del
Ministro di grazia e giustizia e del Presidente del Consiglio superiore
della magistratura per regolamento preventivo di giurisdizione in
ordine ai ricorsi proposti al Consiglio di Stato dai magistrati Roperti
Modesto, Aliotta Empedocle, Zuliani Giuseppe, Schinzari Renato e Lania
Pietro, iscritte ai nn. 201, 202, 203 del Registro ordinanze 1966 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 12
novembre 1966.
Visto l'atto di costituzione del Ministro di grazia e giustizia;
udita nell'udienza pubblica del 1 aprile 1968 la relazione del
Giudice Costantino Mortati;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò,
per il Ministro di grazia e giustizia.

Ritenuto in fatto:

1. - Con ricorso al Consiglio di Stato il dott. Modesto Roperti,
Presidente del Tribunale di Catanzaro, impugnava per violazione di
legge ed eccesso di potere il decreto ministeriale 11 febbraio 1961,
col quale era stata attuata la deliberazione 26 gennaio 1961 del
Consiglio superiore della magistratura di modificazione a suo danno
della graduatoria del concorso per titoli a trentaquattro posti di
magistrato di cassazione, ed altresì la deliberazione stessa. Prima
che su tale impugnazione intervenisse alcuna decisione, il Ministro di
grazia e giustizia proponeva regolamento preventivo di giurisdizione,
ai sensi dell'art. 41 del Codice di procedura civile, deducendo che, in
precedenti decisioni del 14 marzo 1962, la IV Sezione del Consiglio di
Stato aveva affermato la propria giurisdizione sui ricorsi rivolti
contro i decreti presidenziali e ministeriali emessi in attuazione di
deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ai sensi
dell'art. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, nonché
su queste deliberazioni, e poiché le pronuncie emesse si fondavano su
presupposti non compatibili col principio dell'indipendenza e
dell'autonomia della magistratura, deduceva il difetto di giurisdizione
del Consiglio di Stato, sostenendo anzitutto che l'art.17 predetto
dev'essere interpretato nel senso di ammettere il ricorso a detto
organo solo per i vizi inerenti ai decreti che adottano le
deliberazioni del Consiglio superiore, non già per gli altri che
fossero fatti valere nei riguardi di queste ultime, mentre con diversa
interpretazione si dovrebbero ammettere, ciò che invece non è
ammissibile, che cioè l'atto del Consiglio superiore sia meramente
preparatorio del provvedimento dell'esecutivo, oppure che il Consiglio
di Stato abbia giurisdizione sugli atti amministrativi che siano tali
in senso soltanto oggettivo, ammettere cioè principi contrastanti con
la Costituzione.
La difesa del dott. Roperti presentava un controricorso nel quale,
mentre ribatteva le argomentazioni dedotte nel ricorso avanti
all'organo di giustizia amministrativa, e ne chiedeva il rigetto,
formulava, in via subordinata, la richiesta di rimessione degli atti
alla Corte costituzionale, muovendo dalla considerazione che se l'art.
17 dovesse essere interpretato nel modo suggerito nel ricorso allora
tale norma realizzerebbe una violazione degli artt. 24 e 113 della
Costituzione e dovrebbe essere sollevata una corrispondente questione
di legittimità costituzionale.
Le sezioni unite della Cassazione, con sentenza parziale del 10
marzo 1966 statuivano che l'art. 17 doveva interpretarsi nel senso di
consentire il ricorso al Consiglio di Stato non solo per i vizi propri
dei decreti presidenziali o ministeriali, ma anche per quelli delle
deliberazioni stesse respingendo conseguenzialmente il motivo del
ricorso relativo all'interpretazione dell'articolo predetto. Con
ordinanza in pari data le stesse sezioni unite ritenevano rilevante per
la decisione della causa la questione relativa alla costituzionalità
della competenza attribuita al Consiglio di Stato dall'articolo citato,
con riferimento agli artt. 100, primo comma, 104, 105, 24, primo comma,
103 e 102, secondo comma, prima parte, della Costituzione, e la
consideravano non manifestamente infondata sulla base delle seguenti
considerazioni. In primo luogo, se appare pacifica la natura
oggettivamente amministrativa del provvedimenti del Consiglio superiore
(affermata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 168 del
1963), tutt'altro che certo appare invece che essi provengano da un
organo della pubblica amministrazione, e che quindi sussista in
confronto ai provvedimenti stessi il requisito dell'atto anche
soggettivamente amministrativo, richiesto per la loro assoggettabilità
al sindacato del Consiglio di Stato. Muovendo critiche alla
giurisprudenza di tale consesso, quale risulta dalle decisioni in
materia del 1962 e del 1965, rileva che, se non mancano esempi nei
quali un organo di un potere dello Stato assume, per determinate
funzioni, la qualità di organo di un altro potere, ciò non può
ritenersi per il Consiglio superiore, rispetto al quale la volontà del
costituente fu indubbiamente di creare un organo supremo dello Stato,
autonomo ed indipendente da ogni altro potere (art. 104, primo comma,
della Costituzione). Ciò premesso, l'ordinanza contesta che le
deliberazioni del Consiglio superiore siano qualificabili come atti
preparatori del decreto presidenziale o ministeriale, dato che la
relativa competenza spetta esclusivamente al Consiglio superiore ai
sensi dell'art. 105 della Costituzione, sicché l'elemento sostanziale
è dato unicamente dalla deliberazione del Consiglio superiore, la
quale costituisce un atto dotato di una propria autonomia,
necessariamente rilevante anche ai fini dell'impugnazione, mentre il
decreto dell'esecutivo integra soltanto il requisito formale del
provvedimento. Esaminando poi problematicamente l'assoggettabilità
delle deliberazioni del Consiglio superiore alla disciplina generale
degli atti amministrativi, la Corte osserva che l'eventuale soluzione
negativa di questo problema importerebbe la necessità di affrontare
quello relativo all'ammissibilità di una tutela giurisdizionale, ai
sensi dell'art. 24, primo comma, della Costituzione, rispetto agli atti
oggettivamente amministrativi, posti in essere dai supremi organi dello
Stato, ed in particolare dal Consiglio superiore della magistratura.
Ma, d'altra parte, ove dovesse ammettersi la sindacabilità delle
deliberazioni del Consiglio superiore al di fuori della normale
disciplina degli atti amministrativi, e indipendentemente da essa,
sorgerebbe l'ulteriore problema di stabilire se sia costituzionalmente
legittimo che l'art. 17 in esame, attribuendo tale sindacato alla
competenza del Consiglio di Stato - laddove l'art. 103, primo comma,
circoscrive questa forma di tutela giurisdizionale soltanto nei
confronti della pubblica amministrazione - non comporti l'istituzione
di una giurisdizione speciale, in violazione dell'art. 102, secondo
comma, prima parte, della Costituzione. In conseguenza di tali
considerazioni le sezioni unite hanno disposto la sospensione del
giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Dopo che l'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966; si è
costituito avanti la Corte costituzionale il Ministero di grazia e
giustizia, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato.
Questa, in data 30 novembre 1966, ha presentato deduzioni in cui,
innanzi tutto, fa rilevare che l'interpretazione adeguatrice dell'art.
17, secondo comma, che era stata da essa proposta nelle precedenti fasi
del giudizio, se pure è stata respinta dalla Corte di cassazione,
rimane sempre aperta ai poteri interpretativi della Corte
costituzionale.
Ciò premesso, l'Avvocatura sottolinea il carattere di organo
costituzionale da riconoscere al Consiglio superiore, in quanto spetta
ad esso, come strumento di autogoverno della magistratura, garantirne
l'autonomia e l'indipendenza di fronte agli altri poteri, in
applicazione del principio fondamentale della divisione del poteri.
Deduce da ciò che i suoi atti non sono atti meramente preparatori
inseriti in un procedimento, che trovi nella decretazione presidenziale
o ministeriale l'atto finale di decisione, costituendo invero esercizio
del potere deliberante spettante in proprio ed esclusivamente ad esso
Consiglio (come si ricava anche dalla sentenza delle sezioni unite
della Cassazione del 3 febbraio 1917). Passando poi a considerare i
requisiti richiesti per gli atti sottoponibili al sindacato del
Consiglio di Stato osserva che non esiste una nozione di atto
"oggettivamente amministrativo", che sia tale naturaliter, e comunque
essa non può essere presa a base per individuare quali atti siano
impugnabili con ricorso al Consiglio di Stato, richiedendosi per
qualificare l'atto come amministrativo ai fini di tale ricorso che
sussista anche l'elemento soggettivo. Osserva che non sussistono nel
nostro ordinamento esempi di atti assoggettati al potere di sindacato
giudiziario in base alla natura delle funzioni esercitate. Ed
aggiunge, con riferimento agli artt. 100, 103 e 113 della Costituzione,
che la giurisdizione del Consiglio di Stato è rigorosamente
circoscritta alla tutela degli interessi legittimi (ed in taluni casi
del diritti soggettivi) nei confronti della pubblica amministrazione,
sicché l'estensione di questa ad atti non emanati da organi della
medesima si risolverebbe in una violazione dell'art. 102, secondo
comma, prima parte, della Costituzione, che vieta l'istituzione di
nuove giurisdizioni speciali.
Passando poi a considerare l'obiezione che si vorrebbe desumere
dall'art. 24, fa osservare che, a meno che non sussista un'espressa
previsione costituzionale, si deve escludere l'assoggettamento alla
giurisdizione degli atti degli organi primari dello Stato, rispetto ai
quali il solo rimedio esperibile è quello del conflitto di
attribuzioni. Nella specie rimedi specifici nei confronti di lesioni
di situazioni soggettive, in dipendenza di deliberazioni delle
commissioni del Consiglio superiore, sono previste dalla legge in esame
che ammette il ricorso al plenum avverso le dette deliberazioni. Fa
considerare inoltre che l'art. 24 vieta gli impedimenti esterni
all'esercizio del diritto di azione, ma non impone che siano rese
azionabili tutte le specie di pretese giuridiche, anche quando non
esista, e non possa esistere come nella specie, una sede dell'eventuale
giudizio. Conclude chiedendo che sia dichiarata la fondatezza della
questione sollevata.
2. - Con ricorso del 14 marzo 1960 il dott. Giuseppe Zuliani,
magistrato di Tribunale con funzioni di pretore impugnava avanti il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale i provvedimenti con i quali
era stato per due volte ritenuto impromuovibile e conseguentemente
dispensato dal servizio.
L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Ministero,
concludeva in via principale perché fosse dichiarato il difetto di
giurisdizione del Consiglio di Stato e, subordinatamente, per il
rigetto del ricorso.
Con sentenza 14 marzo 1962, n. 250, la IV sezione del Consiglio di
Stato affermava la propria giurisdizione e, riservata la pronuncia sul
merito e sulle spese, ordinava il deposito di una serie di atti.
Avverso tale decisione il Ministero proponeva ricorso per
regolamento di giurisdizione sulla base di argomentazioni analoghe a
quelle contenute nel ricorso che ha dato luogo all'ordinanza n. 201
Registro ordinanze 1966.
Nel controricorso la difesa della parte privata faceva rilevare
che, poiché l'unico atto con rilevanza esterna nei procedimenti in
questione è il decreto presidenziale o ministeriale, bene il
legislatore l'ha reso impugnabile per appagare l'esigenza di tutelare i
diritti e gli interessi del magistrati garantiti dalla Costituzione,
come risulta anche dall'esame del lavori preparatori della legge. Circa
la questione di legittimità costituzionale prospettata ipoteticamente
nel ricorso, la parte privata osservava che, se la si voleva porre,
essa doveva essere affrontata nella sua sede propria e si pronunciava
nettamente contro l'intento, che attribuiva alla parte avversa, di
modificare l'art. 17 in via di interpretazione.
La Corte suprema ha pronunciato anche in questa causa una sentenza
parziale ed una ordinanza che, nella motivazione in diritto, sono
identiche a quelle viste in relazione all'ordinanza n. 201 Registro
ordinanze 1966.
Dopo che l'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966, vi è
stata costituzione avanti alla Corte solo dell'Avvocatura generale
dello Stato in rappresentanza del Ministero di grazia e giustizia, la
quale, il 30 novembre 1966, ha presentato deduzioni la cui motivazione
è identica a quella delle deduzioni esaminate a proposito
dell'ordinanza n. 20 Registro ordinanze 1966.
3. - Con ricorso in data 11 giugno 1964 il dott. Renato Schinzari,
magistrato di corte di appello impugnava avanti il Consiglio di Stato
la deliberazione del Consiglio superiore della magistratura dell'11
marzo 1964 con la quale era stato respinto un ricorso da lui proposto
avverso la deliberazione 14 dicembre 1963 della commissione di
scrutinio per la promozione a magistrato di cassazione, con la quale
egli era stato escluso dallo scrutinio stesso.
Prima che su tale ricorso intervenisse la decisione, con ricorso 21
giugno 1965, il Presidente del Consiglio superiore della magistratura
ed il Ministro di grazia e giustizia, proponevano regolamento di
giurisdizione, deducendo motivi a quelli contenuti nei ricorsi che
hanno dato luogo alle ordinanze precedentemente esaminate.
Le parti private non si costituivano avanti la Corte suprema di
cassazione e la causa aveva uno svolgimento parallelo alle altre due.
Dopo la notifica, comunicazione e pubblicazione dell'ordinanza di
rimessione nella Gazzetta Ufficiale n. 284 del 12 novembre 1966 si è
costituito davanti alla Corte costituzionale il Ministro di grazia e
giustizia per il quale, il 30 novembre 1966, l'Avvocatura generale
dello Stato ha presentato deduzioni identiche, nella motivazione in
diritto, a quelle viste in relazione alle ordinanze n. 201 e 202,
Registro ordinanze 1966.
Anche in questo giudizio le parti private non si sono costituite
avanti la Corte costituzionale.
4. - Con memoria depositata il 15 marzo 1968 l'Avvocatura generale
ha ulteriormente illustrato le proprie deduzioni, osservando che il
punctum dolens della questione sta nell'antinomia esistente fra due
esigenze che sono state ambedue tenute presenti dalle disposizioni
costituzionali: quella derivante dalla necessità di assicurare
l'autonomia e l'indipendenza dell'ordine giudiziario da ogni altro
potere dello Stato, e quella di accordare a tutti la tutela
giurisdizionale del diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Tale antinomia, secondo il deducente, dovrebbe essere risolta
escludendo in ogni caso la ricorribilità delle delibere consiliari
avanti il Consiglio di Stato per l'assoluta sua incompetenza in materia
e ravvisando una idonea garanzia del diritti e degli interessi del
magistrati nella possibilità di reclamo al plenum del Consiglio, che
giudica anche in merito in tema di scrutini, mentre in materia di
concorsi è giudice della legittimità.
Dopo avere richiamato anche altri argomenti già svolti nelle
precedenti scritture difensive, la difesa del Ministero insiste nelle
conclusioni precedentemente assunte.
5. - Nella discussione orale ha illustrato i motivi già dedotti e
confermate le richieste formulate.

Considerato in diritto:

1. - Le tre cause, avendo lo stesso oggetto, devono essere riunite
e decise con unica sentenza.
2. - L'Avvocatura dello Stato, nel richiamare le vicende del
processo svoltosi avanti alle sezioni unite della Suprema Corte di
cassazione, ha riaffermato la validità dell'interpretazione da essa
data in quella sede al secondo comma dell'art 17 in questione, nel
senso che questo limiti l'impugnativa avanti al Consiglio di Stato solo
ai vizi relativi agli atti emanati degli organi dell'Esecutivo, non
già agli altri costituiti dalle statuizioni del Consiglio superiore
della magistratura (ciò che, se esatto, farebbe venire meno la censura
di incostituzionalità sollevata) e fa osservare, quanto del resto era
ovvio, che cioè la contraria opinione della Cassazione ha lasciato
integra la funzione interpretativa spettante a questa Corte. Il riesame
compiuto di tale punto ha però condotto la Corte a ritenere che nessun
altro significato, diverso da quello accolto dalla Cassazione, potrebbe
attribuirsi alla citata disposizione. Infatti, mettendo a raffronto i
primi due comma dell'art. 17 si rileva agevolmente come i
"provvedimenti", cui ha riguardo il secondo, siano quegli stessi
considerati dal precedente, ed essi risultano tanto dalle deliberazioni
del Consiglio superiore della magistratura quanto dal decreto che le
adotta; sicché il ricorso cui, con formulazione generica, la
disposizione fa riferimento non può non assumere a suo oggetto sia
l'una che l'altra parte dei provvedimenti stessi. Ciò risulta
confermato dall'ultimo comma che, con analoga formula, dispone, contro
quegli fra essi riguardanti la materia disciplinare, l'impugnativa
avanti alla Cassazione, per la quale nessun dubbio sorge, ne è stato
mai fatto valere, circa la sua estensione a vizi, e del contenuto e
della forma.
3. - Per accertare la fondatezza della tesi sostenuta
dall'Avvocatura, secondo cui gli atti del Consiglio superiore della
magistratura relativi allo stato del magistrati devono rimanere
sottratti a qualsiasi sindacato della loro legittimità ad opera di
organi ad esso estranei, occorre richiamarsi anzitutto alla funzione
conferita dalla Costituzione al detto organo.
Risulta dal suo art. 104 che l'istituzione visualizza testo argomento del Consiglio superiore
della magistratura ha corrisposto all'intento di rendere effettiva,
fornendola di apposita garanzia costituzionale, l'autonomia della
magistratura, così da collocarla nella posizione di "ordine autonomo
ed indipendente da ogni altro potere", e conseguentemente sottrarla ad
interventi suscettibili di turbarne comunque l'imparzialità e di
compromettere l'applicazione del principio consacrato nell'art. 101,
secondo cui i giudici sono soggetti solo alla legge. Si è così
provveduto (ad integrazione e rafforzamento delle altre garanzie
costituzionali di indipendenza, quali risultano dalla riserva di legge
(art. 108), dall'assunzione del magistrati, in via normale, mediante
pubblico concorso (art. 106), dall'inamovibilità (art. 107) a
concentrare ogni provvedimento relativo al reclutamento e allo stato
degli appartenenti all'ordine nella competenza assoluta ed esclusiva
idi un organo che, mentre realizza una particolare forma di autonomia,
pel fatto di essere espresso in prevalenza dallo stesso corpo
giudiziario, è poi presieduto dal Capo dello Stato, in considerazione
della qualità che questi riveste di potere "neutro" e di garante della
Costituzione, ed è altresì fornito di una serie di guarentigie
corrispondenti al rango spettantegli, nella misura necessaria a
preservarlo da influenze che, incidendo direttamente sulla propria
autonomia, potrebbero indirettamente ripercuotersi sull'altra affidata
alla sua tutela.
Non è rilevante, al fine che qui interessa della determinazione
dell'ambito di insindacabilità dei suoi atti, stabilire la natura del
rapporto sussistente fra il Consiglio superiore della magistratura e la
magistratura, per precisare se esso sia da considerare organo di questa
e quindi parte dell'ordine giudiziario, o invece organo a sé stante, o
addirittura distinto potere. Mentre non è contestabile la diversità
oggettiva delle funzioni rispettivamente esercitate: giurisdizionali
le une, amministrative le altre (non apparendo dubbia l'appartenenza a
quest'ultima categoria delle misure disposte nei casi concreti, in
applicazione delle norme relative all'assunzione ed alla carriera del
magistrati), non incontra poi difficoltà ammettere che le rispettive
attività possono rimanere assoggettate a differenti trattamenti.
Neppure necessario appare prendere posizione sul punto se il rango
da riconoscere al Consiglio sia quello proprio di organo
costituzionale, dato che il sistema vigente conosce del casi di
assoggettamento al controllo giurisdizionale di atti provenienti da
organi indubbiamente costituzionali. Sicché l'eventuale attribuzione
della qualifica predetta non offrirebbe un criterio idoneo a risolvere
la questione.
4. - Il problema è quindi da prospettare in termini diversi,
dovendosi chiedere se (in assenza di specifiche statuizioni al
riguardo) il buon adempimento della funzione strumentale affidata al
Consiglio superiore della magistratura esiga la sua sottrazione ad ogni
interferenza, non solo del poteri attivi (ed in ispecie di quello
esecutivo, cui in passato la magistratura era stata collegata, ed a
volte anche gerarchicamente subordinata, e rispetto al quale quindi
l'esigenza di autonomia si era tradizionalmente fatta valere) ma anche
del potere giurisdizionale, in quanto dovesse risultare che, se pure
limitata all'esercizio del solo controllo di legittimità, sia tale, da
potere, indirettamente, pregiudicare l'esercizio imparziale
dell'amministrazione della giustizia.
Secondo l'Avvocatura dello Stato deve considerarsi vana impresa
cercare un giudice idoneo a conoscere degli atti degli organi primari
dello Stato, in ordine ai quali il solo strumento utilizzabile sarebbe
quello del conflitto di attribuzione. A parte l'inesattezza del rilievo
quando sia così genericamente formulato, è agevole osservare che tale
rimedio potrebbe, se mai, giovare solo indirettamente alla tutela del
diritti ed interessi del magistrati, mentre non la potrebbe mai far
conseguire quando la lesione dei medesimi provenga dall'attività dello
stesso Consiglio.
Rendendosi conto di ciò l'Avvocatura sostiene che il solo rimedio
possibile contro lesioni di tal genere sarebbe il ricorso dalle
commissioni all'adunanza plenario del Consiglio superiore della
magistratura. Ciò sulla base di un presunto principio di autonomia
ricavabile dall'ordinamento, che dovrebbe condurre a sottrarre gli atti
degli organi supremi dello Stato, incidenti sulle situazioni giuridiche
di determinati soggetti ad essi appartenenti o dai medesimi dipendenti,
alle comuni giurisdizioni, per affidarli ad un sindacato esercitabile
esclusivamente ad opera degli organi medesimi. Si è già osservato
come non sussistano nel nostro ordinamento regole che possano
considerarsi applicabili a tutti gli organi cui la Costituzione
conferisce una posizione di indipendenza. Gli esempi di tale specie di
"autocrinia" offerti dal diritto positivo riguardano organi fra loro
assai diversi per natura, posizione, funzioni, risultano da differenti
fasi attraversate dall'organizzazione dello Stato, riflettendo in parte
esigenze non tutte attuali, e pertanto non si rende possibile
all'interprete, nel silenzio di disposizioni specifiche, ricavare da
essi elementi sufficienti per giungere ad ammettere un regime giuridico
tipico unitario, sottratto, quale diritto speciale, a quello comune, e
per giunta fornito di efficacia costituzionale.
In ogni caso, anche se si potesse accertare la presenza di un
principio siffatto, sarebbe da osservare che la disciplina eccezionale
dal medesimo derivabile riguarderebbe il trattamento giuridico dei
componenti o dei dipendenti degli organi investiti di tale prerogativa,
sicché, se una sua estensione analogica potesse ammettersi, dovrebbe
rimanere limitata agli atti del Consiglio superiore della magistratura
aventi un medesimo contenuto, non mai estendersi a quelli riguardanti
soggetti ad esso estranei, come sono i magistrati.
Si deve poi aggiungere che, non rivestendo il Consiglio superiore
della magistratura indole, né possedendo struttura di organo
giurisdizionale, il reclamo proposto al plenum, anche se fosse
configurabile nei termini prospettati dall'Avvocatura (il che non è),
non varrebbe a soddisfare l'imperativo dell'art. 24, che vuole
assicurata la difesa "in giudizio", cioè avanti ad un giudice, e con
il debito procedimento legale (secondo la Corte ha statuito con la
sentenza n. 66 del 1964). Né può dirsi, come si sostiene, che
dall'articolo in parola si ricavi solo il divieto di impedimenti
esterni all'esercizio dell'azione giudiziaria, poiché la sua portata
è ben più vasta. E del pari priva di valore è l'affermazione secondo
cui l'applicazione dell'art. 24 presuppone l'esistenza di una
giurisdizione competente, dato l'evidente circolo in cui essa si
involge, fino a quando non si fornisca la dimostrazione (come si è
visto, non deducibile dal sistema) che competente possa essere solo lo
stesso Consiglio superiore della magistratura.
Si può aggiungere che non si renderebbe neppure possibile alla
legge ordinaria conferire al Consiglio superiore della magistratura, al
fine di cui si parla, la necessaria veste e funzione giurisdizionale,
che attualmente fa difetto, ponendo a ciò ostacolo l'art. 102,
secondo comma.
Sicché, visualizza testo argomento a voler seguire la tesi confutata, si dovrebbe essere
indotti a constatare la presenza di una lacuna, in nessun modo
colmabile se non con legge costituzionale, rimanendo nel frattempo
sospesa la garanzia generale di tutela giurisdizionale posta dall'art.
24. Non può sfuggire la gravità di una conclusione di tal fatta che
condurrebbe ad escludere la tutela giurisdizionale, voluta assicurare a
"tutti", in conformità di un principio coessenziale ad ogni tipo di
Stato di diritto, per una intera categoria di cittadini, e cioè per
tutti gli appartenenti alla magistratura, che rimarrebbero indifesi di
fronte a possibili (se pure, è da presumere, eccezionali) violazioni
di legge da parte del Consiglio superiore della magistratura, lesive
del propri diritti o interessi legittimi.
5. - Se si muova dalla considerazione, che non sembra contestabile,
secondo cui la sottoposizione delle deliberazioni del Consiglio
superiore della magistratura ad un controllo di stretta legittimità da
parte di un organo appartenente al potere giurisdizionale non sia, di
per sé, tale da condurre necessariamente a vanificare o comunque ad
attenuare l'efficacia della funzione garantista cui esse adempiono, la
questione si riduce ad accertare la fondatezza dell'ostacolo che il
diritto positivo, secondo la difesa del Ministero, oppone all'esercizio
del sindacato sugli atti in parola da parte della giurisdizione cui
l'art. 113 affida la tutela del diritti ed interessi legittimi.
L'ostacolo eccepito è quello fatto derivare visualizza testo argomento dalla parte dell'articolo
predetto che limita agli atti della pubblica amministrazione la tutela
medesima, e che, messo in relazione con i precedenti artt. 102 e 103,
deve intendersi circoscritto solo agli interventi della giurisdizione
amministrativa, mentre per quella ordinaria è da farsi valere il
carattere della generalità della competenza ad essa inerente, e di
conseguenza l'eliminazione del limite menzionato.
Tuttavia il deferimento che, sulla base di tali considerazioni,
volesse farsi a quest'ultima giurisdizione dei ricorsi del magistrati,
in deroga ai principi, che concentrano nel giudice amministrativo,
nella materia del pubblico impiego, quale è quella de qua, ogni specie
di tutela sia dei diritti che degli interessi, oltre a suscitare il
problema discendente dalle restrizioni di tutela che, almeno secondo la
legislazione vigente, ineriscono ai poteri ad essa consentiti, fa
sorgere gravi perplessità, data la confluenza che verrebbe a
verificarsi negli appartenenti allo stesso "ordine", di destinatari dei
provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura e di giudici
della regolarità del medesimi.
Ma ogni approfondimento su questo punto appare ultroneo, almeno
fino a quando non si accerti la fondatezza dell'eccezione sollevata nei
confronti della norma denunciata, che affida esclusivamente al
Consiglio di Stato la competenza in discorso. La difficoltà che
all'applicazione nella specie del citati articoli della Costituzione
oppone il carattere rivestito dal Consiglio superiore della
magistratura, cioè di organo che, pure espletando funzioni solamente
di indole amministrativa, non è parte della pubblica amministrazione
(in quanto rimane estraneo al complesso organizzativo che fa capo
direttamente, o al Governo dello Stato o a quello delle Regioni, ed
all'altro cui dà vita l'amministrazione indiretta, collegato al primo
attraverso l'esercizio di forme varie di controllo ad esso attribuite),
non può essere superata attraverso l'asserzione, contenuta in alcune
decisioni del Consiglio di Stato, del carattere preparatorio da
assegnare all'attività di detto organo rispetto a quella esplicata con
l'emanazione dei decreti previsti dall'art. 17, i quali quindi,
secondo detta tesi, dovrebbero considerarsi costitutivi degli effetti
giuridici riguardanti i magistrati che ne sono destinatari. Infatti
visualizza testo argomento l'opinione riferita è contrastata dalla chiara dizione degli artt.
105, 106, 107, 110 della Costituzione, i quali attribuiscono proprio
alla sola competenza del Consiglio superiore della magistratura tutti i
provvedimenti di stato comunque riguardanti i magistrati, secondo poi
è specificato dall'art. 10 e successivi della legge n. 195 del 1958,
emessa in attuazione del precetto costituzionale, che fanno riferimento
ai poteri "deliberanti" dell'organo medesimo. Deriva da ciò che, una
volta avvenuta la comunicazione del singoli atti di esercizio di tali
poteri, si determina un dovere giuridico a carico dell'Esecutivo di
renderli concretamente operanti mediante l'emanazione di appositi
decreti che ne adottino integralmente il contenuto. Pertanto le dette
deliberazioni, se nei confronti dei loro destinatari e dei terzi
esplicano effetti solo dalla data di emanazione del decreti, nei
rapporti invece con gli organi esecutivi sono, dal momento stesso della
loro comunicazione a questi ultimi, produttivi della pretesa da parte
dell'organo deliberante alla loro adozione. Ed evidentemente sulla base
di tali presupposti la Corte, con la sentenza n. 168 del 1963, ha
potuto ritenere infondata la censura che era stata rivolta all'art. 17
pel fatto di avere attribuito ad organi estranei l'emanazione delle
pronuncie del Consiglio superiore della magistratura, dato che questo
resta ovviamente del tutto libero nelle sue determinazioni.
6. - È però da chiedere se, una volta accertato che tali
deliberazioni siano da imputare al Consiglio superiore della
magistratura, cioè ad un organo estraneo alla pubblica
amministrazione, ne debba discendere l'inammissibilità del sindacato,
riservato agli atti provenienti da quest'ultima, su ricorso al
Consiglio di Stato, qual'è previsto dalla norma impugnata. La risposta
al quesito può essere desunta (anche all'infuori di ogni
approfondimento circa l'ambito da assegnare al concetto di pubblica
Amministrazione, al fine della proponibilità del ricorso anzidetto) da
quanto risulta dalla sentenza n. 168 prima citata , nella parte in cui
è messa in rilievo la funzione che è da ritenere affidata ai decreti
dell'Esecutivo, di conferire cioè alle decisioni dell'organo
deliberante la forma che, sulla base dei principi fondamentali del
sistema, è prescritta per i provvedimenti aventi indole
sostanzialmente amministrativa. Ciò è stato statuito dalla Corte non
ai soli fini della sottoposizione dei decreti stessi al controllo
finanziario, come assume l'Avvocatura, ma "anche" a tal fine, e quindi,
più generalmente, alle varie specie di sindacato destinate ad
assicurarne il contenimento nell'ambito dell'ordine legale.
Risulta, pertanto, che nessuna violazione dell'art. 113 della
Costituzione può derivare dall'esperimento del rimedio consentito dal
secondo comma dell'art. 17.
7. - Rimane da esaminare un ultimo motivo di incostituzionalità,
che l'ordinanza, in via subordinata, propone desumendolo dall'art. 102
della Costituzione, nella considerazione che, attribuendosi al
Consiglio di Stato la competenza a sindacare atti non emanati dal
potere esecutivo, si viene a dar vita ad una nuova giurisdizione
speciale, in contrasto con il divieto posto da detta disposizione.
L'eccezione deve ritenersi superata da quanto prima si è osservato
circa la funzione assegnata al decreto di adozione della deliberazione
consiliare, poiché è chiaro che l'attribuzione di nuove competenze,
cui sia da riconoscere la stessa indole di quelle proprie di un organo
giurisdizionale, non può mai ricadere sotto la detta prescrizione. Per
ritenere il contrario bisognerebbe presupporre che il sindacato de quo
reagisca, alterandola, sulla essenza della funzione che caratterizza
l'organo di controllo: il che, come si è visto, non si verifica.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195, recante
norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore
della magistratura, proposta con le ordinanze delle sezioni unite
civili della Corte suprema di tassazione indicate in epigrafe, in
relazione agli artt. 100, primo comma, 104, 105, 24, primo comma, 103,
102, secondo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 30 aprile 1968.
ALDO SANDULLI - BIAGIO PETROCELLI -
ANTONIO MANCA - GIUSEPPE BRANCA -
MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI
- GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE
VERZÌ - GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
- FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI
OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE
ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO
MICHELE TRIMARCHI.

 
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