N. 54 SENTENZA 21 MARZO 1969
Deposito in cancelleria: 28 marzo 1969. Pubblicazione in "Gazz. Uff.le" n. 85 del 2 aprile 1969. Pres. SANDULLI - Rel. OGGIONI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. ALDO SANDULLI, Presidente - Prof. GIUSEPPE BRANCA - Prof. MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO MORTATI - Prof. GIUSEPPE CHIARELLI - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 574 del Codice penale, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 29 maggio 1967 dal pretore di Gavirate nel procedimento penale a carico di Vermiglio Rosa, iscritta al n. 170 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 221 del 2 settembre 1967; 2) ordinanza emessa il 29 aprile 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Bacchini Elia, iscritta al n. 101 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 184 del 20 luglio 1968; 3) ordinanza emessa il 15 maggio 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Cicala Liliana, iscritta al n. 175 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 284 del 28 settembre 1968. Visto l'atto di costituzione di Cicala Liliana; udita nell'udienza pubblica del 12 febbraio 1969 la relazione del Giudice Luigi Oggioni; udito l'avv. Nicola Catalano per Cicala Liliana.
Ritenuto in fatto:
Con ordinanza emessa il 29 maggio 1967 nel procedimento penale a carico di Vermiglio Rosa, imputata, su querela del marito, Guerra Walter, del delitto di cui all'art. 574 del Codice penale, per avere sottratto al coniuge esercente la patria potestà la figlia minore, il pretore di Gavirate ha sollevato questione di legittimità costituzionale del primo comma dell'articolo predetto, in relazione all'art. 29 della Costituzione. Osserva il pretore, nell'ordinanza, che la norma citata punisce il fatto della sottrazione, da parte di "chiunque", di un minore al genitore esercente la patria potestà, e che, secondo l'art. 316 del Codice civile, la detta potestà è esercitata dal padre. Cosicché soggetto passivo del reato sarebbe il padre, ma non la madre che, anzi, potrebbe a sua volta rendersi responsabile del reato in esame. E ciò, anche se la Corte costituzionale con la sentenza n. 9 del 1964, nel dichiarare la illegittimità dell'articolo in questione nella parte in cui limitava l'esercizio del diritto di querela per il delitto in esame al solo genitore esercente la patria potestà, ha ritenuto la norma stessa dettata a garanzia della famiglia, e considerato anche la madre come soggetto passivo del reato e possibile querelante. Infatti, tale interpretazione, secondo il pretore, non impedirebbe che, permanendo nel sistema l'art. 574 così come testualmente formulato, cioè come una norma apprestata a difesa esclusivamente di chi esercita la patria potestà (è infatti reato "la sottrazione al genitore esercente la patria potestà" art. 574 del Codice penale) seguiti a sussistere una disparità di trattamento a svantaggio della madre, che sarebbe passibile di sanzione nel caso in cui sottragga un figlio al padre, mentre quest'ultimo sarebbe invece indenne nel caso inverso. E tale differenza di trattamento non potrebbe giustificarsi come un limite posto a garanzia dell'unità familiare neppure sotto il profilo della eventuale lesione dell'unità di indirizzo, conseguente alla sottrazione del figlio ad opera della madre, in quanto tale impostazione urterebbe pur sempre contro l'interpretazione della norma in esame data dalla Corte con la citata sentenza n. 9 del 1964, secondo cui l'offesa arrecata dalla sottrazione investirebbe, appunto, tutta la famiglia, e non già la sola posizione dell'esercente la patria potestà, trattandosi di reato compreso tra quelli contro l'assistenza familiare. L'ordinanza, notificata il 1 giugno 1967 è stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 2 settembre 1967. Con altra ordinanza, emessa il 29 aprile 1968, nel procedimento penale a carico di Bacchini Elia, pure imputata, a querela del marito, del reato in esame, per una fattispecie analoga alla precedente, il pretore di Roma ha osservato che, in seguito alla citata sentenza della Corte n. 9 del 1964, il disposto dell'art. 574 del Codice penale non sarebbe più suscettibile di univoca interpretazione, in particolare per quanto concerne la perseguibilità o meno del genitore esercente la patria potestà (il che porrebbe la norma in contrasto con il principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione: "nessuno può essere punito se non in forza di legge preesistente al fatto"). Invero, secondo il pretore, si prospetterebbero tre possibili conseguenze della ricordata pronuncia in sede di interpretazione della norma penale in esame. Anzitutto, si potrebbe ravvisare, come oggetto giuridico della tutela penale, non l'esercizio della patria potestà, ma "la famiglia nell'intera consistenza dei suoi interessi sociali, morali ed effettivi" come appunto si esprime la citata sentenza della Corte, e si potrebbe quindi sostituire il termine "famiglia" là dove la legge parla di genitore esercente la patria potestà. Ciò facendo, peraltro, si andrebbe oltre la portata della pronunzia, che non avrebbe investito l'art. 574 nella parte in cui indica il soggetto passivo del reato. A ciò, secondo il pretore, dovrebbe poi aggiungersi, come ulteriore elemento di incertezza, il fatto che il testo della norma prevederebbe un solo soggetto passivo del reato, mentre invece, per effetto della sentenza della Corte, vi sarebbero due titolari del diritto di querela, cioè entrambi i genitori. E ciò in contrasto con il sistema del diritto oggettivo che, in nessun caso, vedrebbe estesa la facoltà di proporre querela ad altri soggetti diversi dalle persone offese dal reato, contemplando solo l'ipotesi della sostituzione del titolare in caso di impossibilità. Né minore incongruenza dovrebbe ravvisarsi nella posizione del padre che, se querelato dalla moglie per il reato in esame, si troverebbe ad essere contemporaneamente soggetto attivo e passivo del reato. Sempre a mente della citata sentenza della Corte si potrebbe poi ritenere che ad entrambi i genitori spetti una sorta di "rappresentanza" della famiglia, in base alla quale sarebbe stata riconosciuta anche alla moglie la titolarità del diritto di querela, o che ad essi spetti la qualifica di soggetti passivi del reato, in virtù del nesso che, ex art. 120 del Codice penale, corre appunto tra soggetto passivo e titolare del diritto di querela. In ogni caso però, secondo il pretore, si verrebbe ad urtare contro la parte rimasta in vigore dell'art. 574 del Codice penale, che rinvia sostanzialmente alla legge civile, cioè all'art. 316 del Codice civile, per quanto attiene alla identificazione dell'esercente la patria potestà, quale soggetto passivo del reato. Ciò premesso, il giudice a quo precisa che, dalle esposte argomentazioni, emergerebbe la impossibilità di interpretare l'art. 574 del Codice penale, il che equivarrebbe a dire che l'ipotesi delittuosa in esame non sarebbe esattamente stabilita dal legislatore, e si risolverebbe in un aperto contrasto con l'art. 25 della Costituzione, il quale dispone che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso", e costituzionalizza così il principio nullum crimen sine lege già accolto dal Codice penale. A questo punto lo stesso giudice ritiene di dovere prospettare la possibilità che, a suo giudizio, si offrirebbero all'organo della giustizia costituzionale per eliminare la asserita anomalia del sistema legislativo e precisamente: la dichiarazione di illegittimità dell'intero art. 574 del Codice penale, oppure la "eliminazione" dallo stesso di ogni riferimento all'esercizio della patria potestà, o ancora la "modifica" dell'art. 316 del Codice civile, attribuendo ad entrambi i coniugi l'esercizio della patria potestà. Escluse le prime due ipotesi, per considerazioni pratiche circa gli inconvenienti che deriverebbero dalla pronunzia in tal senso, il pretore mostra di preferire la terza soluzione. Conclude, tuttavia, col sottoporre alla Corte la sola questione di legittimità dell'art. 574 del Codice penale per violazione dell'art. 29 della Costituzione. L'ordinanza, notificata il 10 maggio 1968 è stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 184 del 20 luglio 1968. Con altra ordinanza emessa il 15 maggio 1968 nel procedimento penale a carico di Cicala Liliana, il pretore di Roma dopo avere prospettato la disparità di trattamento fra i coniugi ex art. 574 del Codice penale in termini analoghi a quelli esposti nell'ordinanza del pretore di Gavirate, ha osservato in particolare che la impossibilità di ravvisare, nel comportamento del padre esercente la patria potestà che sottragga il minore dall'ambito familiare, l'ipotesi del reato in esame, e la posizione di predominio così attribuitagli, finirebbero con il favorire il disgregamento della famiglia, minacciando quindi quel principo della unità familiare che la Costituzione, invece, garantisce. La citata sentenza n. 9 del 1964 della Corte, d'altra parte, avrebbe acuito la portata della disparità, poiché la nuova disciplina processuale derivata da quella pronunzia, non consentirebbe alla madre alcun diritto nei confronti del padre che sottragga il minore all'ambito familiare. Invero la struttura del reato essendo rimasta la stessa, non sarebbe consentito all'interprete di estendere la possibilità di incriminazione ad entrambi i coniugi, ivi compreso cioè quello esercente la patria potestà. Ciò posto, il pretore, anche in questa ordinanza, prospetta "in forma alternativa" due possibili soluzioni della questione: una prima consistente nella declarazione di illegittimità della frase "esercente la patria potestà" contenuta nella prima parte dell'art. 574, il che, a dire del pretore, escluderebbe entrambi i genitori dalla responsabilità penale per il reato in esame; tuttavia ritiene di dover rilevare che se, così operando, si porrebbero i coniugi in stato di parità, si attenuerebbe tuttavia la portata della tutela penale, che conserverebbe la sua efficacia all'esterno della famiglia, ma lascerebbe a suo dire impunito il coniuge che sottraesse il minore all'ambito della stessa. Più convenientemente invece, secondo il pretore, potrebbe operarsi dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 316 del Codice civile, nella parte in cui dispone che la patria potestà è esercitata dal padre. In tal modo si attuerebbe una maggiore logica del reato, e si tutelerebbe nel contempo la famiglia contro ogni unilaterale ed arbitraria sottrazione del minore, mediante un reciproco controllo esercitabile da entrambi i genitori. Ciò posto il pretore, ritenuta rilevante la questione in quanto l'adozione dell'una o dell'altra delle soluzioni prospettate, o comunque di una "diversa strutturazione del reato" inciderebbero sull'accertamento della responsabilità penale dell'imputata, sottopone espressamente alla Corte la questione di legittimità costituzionale dell'art. 574 del Codice penale nella parte concernente la espressione "esercente la patria potestà" in relazione all'art. 316 del Codice civile, là dove dispone "questa potestà è esercitata dal padre", per contrasto con l'art. 29, comma secondo, della Costituzione. L'ordinanza, notificata il 25 giugno 1968 è stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 28 settembre 1968. Avanti alla Corte costituzionale, si è costituita la Cicala Liliana, rappresentata e difesa dall'avv. Nicola Catalano, che ha depositato le proprie deduzioni in Cancelleria il 13 luglio 1968. La difesa riafferma le argomentazioni contenute nell'ordinanza di rinvio per quanto concerne la lamentata discriminazione fra il trattamento riservato al padre ed alla madre dalla norma dell'art. 574 del Codice penale, specie con riferimento all'ipotesi della separazione fra i coniugi, con affidamento dei minori alla madre, nel qual caso maggiormente apparirebbe il contrasto con il principio di eguaglianza dei coniugi. La difesa, poi, pur dichiarando che la questione sarebbe stata sollevata limitatamente all'art. 574 del Codice penale, che sarebbe la sola norma direttamente rilevante ai fini del giudizio principale, sottopone peraltro al giudizio della Corte l'eventualità di procedere anche alla dichiarazione di illegittimità conseguenziale dell'art. 316 del Codice civile (che affida al padre l'esercizio della patria potestà) ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, tenendo presente che la ratio della eventuale dichiarazione di illegittimità della norma penale si fonderebbe sul riconoscimento del contrasto della norma stessa con il principio di eguaglianza dei coniugi, contrasto che dovrebbe conseguenzialmente ravvisarsi anche nei confronti dell'art. 316 del Codice civile. La declaratoria di illegittimità dell'art. 316 del Codice civile, inoltre, sempre secondo la difesa, potrebbe eliminare la necessità di dichiarare la illegittimità dell'art. 574 del Codice penale perché, una volta annullato il privilegio patermo, "ed operata l'attribuzione ad entrambi i coniugi dell'esercizio della patria potestà, verrebbero meno i presupposti stessi della oggettività giuridica del reato, che non potrebbe più sussistere nella sua materialità nei confronti della madre, così come non sussiste ora nei confronti del padre". La difesa, inoltre, riafferma il contrasto della norma penale impugnata con il principio dell'unità familiare, giacché la proposizione della querela per sottrazione di minore fra i coniugi costituirebbe un elemento disgregatore della unità medesima. Conclude pertanto chiedendo dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 574 del Codice penale ed eventualmente, per via di connessione, dell'art. 316 del Codice civile.
Considerato in diritto:
1. - Le tre ordinanze, di cui in epigrafe, propongono, con motivi in gran parte comuni, la stessa questione di costituzionalità dell'art. 574 del Codice penale. L'identità dell'oggetto giustifica la riunione dei giudizi per la decisione con unica sentenza. 2. - La questione è proposta nei seguenti termini: Nelle ordinanze, si dà atto, in primo luogo, che questa Corte, con sentenza 5 febbraio 1964, n. 9, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 574 del Codice penale in riferimento all'art. 29, secondo comma, della Costituzione "in quanto limita il diritto di querela al solo genitore esercente la patria potestà". Si osserva, tuttavia, che resta aperta la questione se, permanendo intatta, pur dopo la citata sentenza, la struttura oggettiva del reato nel senso, che non ammette diversa interpretazione, di reato circoscritto alla ipotesi di sottrazione di minore al genitore cui spetta l'esercizio della patria potestà secondo l'art. 316 del Codice civile (cioè al padre, di regola) e non anche al genitore che non la esercita (cioè, di regola, la madre), sia costituzionalmente legittima, in relazione all'art. 29, secondo comma, della Costituzione, la permanenza di tale discriminazione, che contraddirebbe al principio dell'eguaglianza giuridica dei coniugi. Nelle ordinanze del pretore di Roma viene, poi, prospettata l'eventualità che la Corte possa addivenire di ufficio alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 316 del Codice civile in quanto l'art. 574 del Codice penale ne ripete, ai fini penali, il dato fondamentale relativo all'esercizio della patria potestà. 3. - La questione non è fondata. Va premesso che questa Corte con la citata sentenza n. 9 del 1964 ha basato la riconosciuta estensione del diritto di querela anche alla madre, su duplice motivo: un motivo di ordine generale, nel senso che per l'art. 120 del Codice penale, nella disciplina del diritto di querela, vige il principio che pone sullo stesso piano entrambi i genitori, senza distinzione tra esercente e non esercente la patria potestà: un motivo d'ordine particolare, nel senso che, essendo il delitto di cui all'art. 574 del Codice penale ritenuto e classificato come delitto contro la famiglia e l'assistenza familiare, tutelabile nella intera consistenza dei suoi interessi sociali, morali, affettivi, il genitore, anche se non esercita attualmente la patria potestà, non può essere escluso dalla tutela degli interessi della famiglia. Qualsiasi limitazione soggettiva di questa tutela, verrebbe ad eludere il principio della eguaglianza giuridica dei coniugi, anche in relazione all'altro principio, pur esso corrispondente ad interesse generale, del favor querelae, principio che questa Corte, con sentenza n. 101 del 1965 ha di nuovo richiamato appunto per distinguere il caso della querela ex art. 574 del Codice penale dal caso del diritto di costituirsi parte civile nell'interesse del minore, in un procedimento penale. Ciò premesso, va rilevato che il contenuto della citata sentenza del 1964, in quanto limitato a risolvere la questione della esclusività o meno del diritto di querela, non incide, nemmeno per implicito o di riflesso, sulla questione ora proposta: ché, anzi, è la sentenza stessa ad avvertire che la soluzione allora adottata non conduce ad una modifica concettuale della figura del reato di cui all'art. 574 del Codice penale, che deve pertanto continuare a considerarsi "immutata ed inalterata". Le ordinanze di rinvio, pur rendendosi conto che la questione, attualmente sottoposta a giudizio, è autonoma in confronto alla questione già decisa sulla titolarità del diritto di querela, assumono che la struttura del reato di sottrazione di persone incapaci, configurata in modo da escludere dalla ipotesi delittuosa di sottrazione colui che sia nell'esercizio della patria potestà, creerebbe, per effetto di questa immunità, una disuguaglianza giuridica costituzionalmente illegittima nell'ambito delle posizioni rispettive che i coniugi assumono nella società coniugale. Ma la Corte ritiene che l'eccepita disuguaglianza non sussista, ove si ponga mente all'oggetto del reato di cui all'art. 574 del Codice penale. Tale oggetto, desunto dalla formazione della norma, dall'intento che l'ha ispirata e dalla sua lettera, consiste, entro il quadro generale della tutela della famiglia, nella tutela di particolari status personali, che creano poteri e, corrispondentemente, doveri, nell'ambito del gruppo familiare. Tale, in primo luogo, lo status di esercente la patria potestà (spetti questo esercizio al padre o, in ipotesi subordinata, alla madre), accanto al quale status vengono annoverati quelli relativi al tutore, al curatore, all'incaricato di funzioni di vigilanza e di custodia. Il reato è concepito in funzione e tutela dell'esercizio dei poteri affidati ai componenti delle categorie suelencate, a ciascuno dei quali spetta il diritto di agire mediante querela contro "chiunque" vi attenti. Spetta parimenti alla moglie, in quanto pur essa titolare della patria potestà, il diritto di agire contro "chiunque" sottragga il minore all'esercizio di quei poteri. Ma la struttura del reato impedisce di far coincidere nella stessa persona (esercente la patria potestà) il soggetto attivo ed il soggetto passivo del reato. Una decisione di incostituzionalità parziale della disposizione, quale le ordinanze prospettano nel senso di pervenire così a livellare in toto e corrispettivamente le posizioni di entrambi i coniugi col dichiarare illegittimo l'inciso "esercente la patria potestà" di cui alla prima parte del primo comma, presupporrebbe e, nello stesso tempo, determinerebbe quella possibile mutazione ed alterazione della figura del reato, già considerata inammissibile dalla precedente sentenza n. 9 del 1964.Le ordinanze 29 aprile e 15 maggio 1968 del pretore di Roma avvertono la connessione della disposizione penale con quella dell'art. 316 del Codice civile che affida, in via primaria, al padre l'esercizio della patria potestà: ciò per prospettare la conseguenzialità di una eventuale duplice dichiarazione di incostituzionalità per l'una e per l'altra disposizione. Ma, va ricordato, in proposito, che con sentenza n. 102 del 1967 questa Corte, per motivi che inducono a ravvisare nel capo famiglia il punto di convergenza dell'unità familiare mediante l'organizzazione dei mezzi idonei al raggiungimento dei fini sociali del matrimonio, tra cui l'allevamento e l'educazione dei figli, ha escluso qualsiasi contraddizione tra detto articolo e l'art. 29 della Costituzione. Né, infine, può attribuirsi alla tutela dell'esercizio della patria potestà, quale sopra si è delineato, il vizio di una distinzione sperequativa tra coniuge e coniuge, nel senso di una immunità accordata irrazionalmente ad uno solo di essi, poiché non è fuor di luogo considerare che l'esercizio della patria potestà attribuisce diritti, ma impone anche doveri, la cui inosservanza, se pregiudizievole al figlio, potrà sempre dar luogo ai provvedimenti giudiziali di cui agli artt. 330 e 333 del Codice civile: come pure, in caso di separazione legale, l'inosservanza di particolari statuizioni del giudice circa l'affidamento dei figli minori potrà essere sanzionata penalmente anche nei riguardi dell'esercente la patria potestà (art. 338 Codice penale). L'art. 574 del Codice penale conserva, comunque, la sua ragion d'essere ed i suoi limiti di operatività nell'ambito del suo contenuto sostanziale, senza che sia fondato il dubbio di una sua illegittimità costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 574, prima parte, del Codice penale proposta in riferimento all'art. 29, secondo comma, della Costituzione con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 1969. ALDO SANDULLI - GIUSEPPE BRANCA - MICHELE FRAGALI - COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE CHIARELLI - GIUSEPPE VERZÌ - GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI - NICOLA REALE.
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