N. 201 SENTENZA 14 DICEMBRE 1972
Deposito in cancelleria: 29 dicembre 1972. Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 3 del 3 gennaio 1973. Pres. MORTATI - Rel. TRIMARCHI
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. COSTANTINO MORTATI, Presidente - Dott. GIUSEPPE VERZÌ - Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - Dott. LUIGI OGGIONI - Dott. ANGELO DE MARCO - Avv. ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - Prof. VEZIO CRISAFULLI - Dott. NICOLA REALE - Prof. PAOLO ROSSI - Avv. LEONETTO AMADEI - Prof. GIULIO GIONFRIDA, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), convertito in legge con legge 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (riordinamento delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti), e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 23 novembre 1971 dalla Corte suprema di cassazione - sezione seconda civile - nel procedimento civile vertente tra Alderigi Marino e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 22 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 dell'8 marzo 1972; 2) ordinanza emessa il 16 dicembre 1971 dal tribunale di Como nel procedimento civile vertente tra Papis Carlo e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 97 del 12 aprile 1972; 3) ordinanze emesse il 24 febbraio 1972 dal tribunale di Pavia in cinque procedimenti civili vertenti rispettivamente tra Costa Giuseppe, Milanesi Giovanni, Sandrini Giuseppe, Tassanelli Mario, Canna Luigi e l'Istituto nazionale della previdenza sociale, iscritte ai nn. 114, 115, 116, 117 e 118 del registro ordinanze 1972 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 122 del 10 maggio 1972. Visti gli atti di costituzione di Alderigi Marino, Papis Carlo, Costa Giuseppe, Milanesi Giovanni, Sandrini Giuseppe, Tassanelli Mario, Canna Luigi, e dell'Istituto nazionale della previdenza sociale; udito nell'udienza pubblica del 22 novembre 1972 il Giudice relatore Vincenzo Michele Trimarchi; uditi l'avv. Benedetto Bussi, per Papis Carlo, Costa Giuseppe ed altri, e l'avv. Luigi Rizzuti per l'INPS.
Ritenuto in fatto:
1. - Marino Alderigi, vedovo di Malvina Patriarca, pensionata dell'Istituto nazionale della previdenza sociale deceduta il 3 marzo 1964, non avendo ottenuto in via amministrativa il riconoscimento del diritto alla pensione di riversibilità perché non era risultato, alla visita medica, che, al tempo della morte della moglie, avesse una capacità di guadagno ridotta a meno di un terzo della norma, proponeva domanda davanti all'autorità giudiziaria ordinaria. La domanda veniva respinta sia dal tribunale che dalla Corte d'appello di Torino. L'Alderigi proponeva allora ricorso per cassazione, sollevando pregiudizialmente l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma quarto, del d.l. 4 aprile 1952, n. 218 (sostituito dall'art. 2, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903), in riferimento all'art. 3 della Costituzione. La Corte di cassazione, in accoglimento dell'eccezione, con ordinanza del 23 novembre 1971, considerava rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma quarto, sub art. 2 della legge 4 aprile 1952 (ora sostituito dall'art. 22, comma quinto, della legge 21 luglio 1965, n. 903), in riferimento agli artt. 3, 37 e 38 della Costituzione. Osservava che la questione era rilevante in modo evidente, perché la dichiarazione di illegittimità della norma denunciata avrebbe comportato la cassazione della sentenza impugnata, in quanto basata su quella norma, e la pronuncia contraria avrebbe reso rilevanti i motivi di censura. Circa la non manifesta infondatezza, riteneva che la riversibilità della pensione spetta in ogni caso alla moglie superstite, e al marito superstite invece, solo se invalido al lavoro, in forza di una disciplina difforme a seconda del sesso del coniuge superstite. Con tali disposizioni non sarebbe rispettato il principio di eguaglianza; infatti, la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore (art. 37) e ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale (art. 38), e d'altra parte, non risulta evidente alcuna diversità di situazione che giustifichi la discriminazione posta dalla norma in questione tra coniugi superstiti in relazione al loro sesso. E non vale, in contrario, obiettare che, considerati gli artt. 37 e 38, sarebbe illegittimo il trattamento di favore fatto alla vedova non invalida al lavoro e non quello previsto per il vedovo non invalido; ché, anzi, l'obiezione sembra ribadire che è ingiustificata la denunciata discriminazione di trattamento. L'ordinanza veniva ritualmente notificata e comunicata, e quindi pubblicata della Gazzetta Ufficiale n. 65 dell'8 marzo 1972. Davanti a questa Corte si costituivano Marino Alderigi, a mezzo dell'avv. Ettore Patrizi, con deduzioni depositate il 23 febbraio 1972 e l'INPS, a mezzo degli avvocati Arturo Pittoni e Luigi Rizzuti, con deduzioni depositate il 28 marzo 1972. Non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri. L'Alderigi, con le deduzioni e con la memoria, chiedeva che fosse dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma denunciata. Nella specie - assumeva l'Alderigi - non si hanno situazioni diverse, anche con riferimento all'art. 37 della Costituzione, perché sia nel caso in cui venga a morte il marito che nel caso opposto, il coniuge superstite rimane solo con i figli senza il sostegno morale ed economico che gli proveniva dal defunto. Il vedovo dovrebbe quindi avere gli stessi diritti della vedova. E pertanto risulterebbe violato l'art. 3, e l'illegittimità troverebbe definitivo sostegno nell'art. 37 della Costituzione. L'Alderigi si richiamava, inoltre, al disegno di legge n. 1937 presentato nella passata legislatura dal Sen. Pozzar, con cui era stata proposta l'abrogazione della norma denunciata, e rifacendosi alla relazione, deduceva che anche per i diritti patrimoniali dei coniugi, derivanti da rapporti estranei alla famiglia (come quelli discendenti dalle assicurazioni sociali), il trattamento di parità può cedere solo davanti all'esigenza dell'unità della famiglia e nella specie l'eguaglianza non porrebbe in pericolo cotesta unità. Concludeva, osservando che la pensione non soddisfa lo stato di bisogno e che tale stato non può dirsi presunto per il vedovo, e dichiarando erroneo l'assunto (dell'INPS) che questi sia tenuto a provare lo stato di bisogno e che, anche quando sia ricco, gli basti la prova dello stato di invalidità. Sarebbe altresì opinabile la dedotta diversa posizione economica nella famiglia, dell'uomo e della donna. In riferimento all'art. 38, infine, l'Alderigi assumeva che da tale disposizione deriverebbe la rilevanza costituzionale del sistema di assicurazione sociale per tutti i lavoratori ed i loro aventi diritto, senza distinzione di sesso. L'INPS, con le deduzioni e con la memoria, sosteneva la tesi della non fondatezza della sollevata questione, ma concludeva chiedendo alla Corte di provvedere come di giustizia. Secondo l'Istituto, premesso che la pensione ha funzione di soccorso e che per quella di riversibilità è presunta nel vedovo la mancanza dello stato di bisogno fino a prova contraria, la norma sarebbe ispirata ad una realtà sociale ancora attuale che per le differenziazioni che presenta, richiede interventi correttivi e socializzanti. Al riguardo, va tenuto presente che ciò è avvenuto per il coniuge-donna per il quale si ha un trattamento eccezionale che però non si presta, in quanto tale, ad essere esteso per analogia al coniuge dell'altro sesso. Quando la norma censurata parla di coniuge, poi, non è esatto dire che non abbia inteso distinguere. Anzi c'è da rilevare come proprio il requisito prescritto dall'art. 10 della legge del 1939 per il coniuge-uomo, sia in stretta aderenza all'esatta portata del secondo comma dell'art. 38 della Costituzione. Si è in presenza quindi di situazioni obiettivamente diverse, per le quali con giustificata ragionevolezza, è prevista una disciplina differenziata. E di tale diversità si trova una conferma nella recente decisione n. 119 del 1972 con cui la Corte costituzionale, considerato che lo stato di inabilità indica un concetto ben più ampio e rigoroso dello stato di invalidità richiesto dalla norma denunciata, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, comma sesto, della legge 15 febbraio 1958, n. 46. Non vi sarebbe quindi alcuna violazione dell'art. 3. Del pari infondata sarebbe la questione in riferimento all'art. 37 (comma primo, parte prima) e 38 (comma primo), per la concettuale inammissibilità e la materiale impossibilità dell'asserito contrasto. Infatti, l'art. 37 garantisce i diritti e le retribuzioni alla donna lavoratrice, parificandoli a quelli dell'uomo lavoratore e non viceversa: e ciò, pur essendo cosa diversa, è comunque ininfluente; e l'art. 38, primo comma, non si riferisce al campo dei diritti alle prestazioni previdenziali a carico delle assicurazioni generali obbligatorie, a parte il fatto che nei successivi commi non è fatto il minimo accenno alla assicurazione e alle prestazioni a favore dei superstiti. 2. - Carlo Papis, vedovo di Maria Vella, pensionata dell'INPS, deceduta l'11 novembre 1960, non avendo ottenuto in via amministrativa il riconoscimento del diritto alla riversibilità della pensione, proponeva la relativa domanda davanti al tribunale di Como, eccependo l'illegittimità costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903 del 1965 per contrasto con gli artt. 3, 29 e 38 della Costituzione. Il tribunale di Como, con ordinanza del 16 dicembre 1971, riteneva rilevante e non manifestamente infondata la questione in riferimento agli artt. 3 e 29, comma secondo, della Costituzione. A giudizio del tribunale, la norma denunciata darebbe luogo ad una disparità di trattamento - rispetto alla condizione fatta dalle altre leggi vigenti alla moglie superstite - con disfavore del marito superstite, e tale disparità non avrebbe altra ragione giustificatrice che la diversità di sesso. Risulterebbe violato l'art. 3; e così pure l'art. 29, comma secondo, della Costituzione, essendo sostenibile che l'eguaglianza giuridica tra i coniugi, voluta dalla Costituzione, non riguardi soltanto i rapporti giuridici nascenti direttamente dal negozio matrimoniale concluso dai coniugi, ma altresì tutti quegli altri rapporti che comunque si ricolleghino allo status di coniugato (o di vedovo). Riteneva, infine, il tribunale estraneo alla competenza del giudice ordinario il potere di accertare quale di due distinte situazioni giuridiche operate dall'ordinamento sia lesiva di un precetto costituzionale, dovendo il giudice ordinario limitarsi a rilevare la disparità di trattamento. L'ordinanza, notificata e comunicata come per legge, veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 12 aprile 1972. Davanti a questa Corte si costituivano Carlo Papis, a mezzo dell'avv. Benedetto Bussi, con deduzioni depositate il 29 aprile 1972 e l'INPS, a mezzo degli avvocati Arturo Pittoni e Luigi Rizzuti, con deduzioni depositate il 2 maggio 1972. Non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri. La difesa del Papis chiedeva che la Corte dichiarasse l'illegittimità costituzionale della norma in questione. Osservava preliminarmente che una diversità di trattamento tra coniugi può essere giustificata validamente sul piano costituzionale, solo da ragioni strettamente connesse con l'esigenza di salvaguardare l'unità familiare; e che tale principio, affermato ripetutamente dalla Corte costituzionale nei riguardi dei rapporti personali e patrimoniali fra coniugi, "non può essere negato neppure quando si verta in materia di altri diritti patrimoniali, anche se scaturiscano da rapporti giuridici estranei alla famiglia, come quelli derivanti dalle assicurazioni sociali". Nella specie, invece, si avrebbe una discriminazione tra vedovo e vedova, non fondata su alcuna obiettiva differenza di situazione che la giustifichi. Secondo il Papis, d'altra parte, dall'art. 38 discenderebbe "la rilevanza costituzionale del sistema di assicurazione sociale per tutti i lavoratori e loro aventi diritto, senza distinzione di sesso". Andrebbe, infine, tenuta presente la sentenza n. 53 del 1969 della Corte costituzionale emessa in relazione ad un caso, come quello in esame, di disparità di trattamento fondata soltanto sulla differenza di sesso dei soggetti considerati. La difesa dell'INPS, con le deduzioni, sosteneva la non fondatezza della questione ma si rimetteva alla giustizia della adita Corte. Con riferimento all'osservazione del tribunale che non rientra nella competenza del giudice ordinario accertare quale delle due situazioni giuridiche in esame sia lesiva di un precetto costituzionale, l'INPS, a proposito della violazione dell'art. 38 della Costituzione, eccepita dal Papis ma negata dal tribunale, deduceva che la prestazione previdenziale, di carattere prettamente alimentare, ha la funzione di sollievo dal bisogno del lavoratore e dei suoi familiari in caso di riduzione incolpevole del reddito della famiglia o di aumento dei bisogni connessi al carico familiare; e che tale impostazione soffre delle deroghe in presenza di particolari e non estensive situazioni soggettive di bisogno, che il legislatore ritiene meritevoli di tutela e che vengono disciplinate con una specifica normativa avente la propria giustificazione razionale nel contesto sociale. Si è così avuta una disciplina particolare per la vedova del pensionato, per la quale viene presunto lo stato di bisogno conseguente alla morte del coniuge; e tale normativa è ancora operante ed attuale, atteso il non sostanziale mutamento della posizione della donna, che sul mercato del lavoro ha una indubbia minore competitività rispetto all'uomo e quindi una minore capacità di guadagno, ed in tale circostanza trova la propria giustificazione. Aggiungeva l'INPS che, se dovesse essere ammessa la riversibilità del trattamento pensionistico in favore del coniuge della pensionata, indipendentemente dal suo stato di invalidità, si verrebbe a violare il precetto dell'art. 38 della Costituzione senza una ragione giustificatrice e sul piano giuridico e su quello sociale. La norma denunciata, richiedendo nel coniuge superstite della pensionata lo stato di invalidità, è, pertanto, conforme al precetto costituzionale, ed anche perché lo stato di invalidità fa ritenere sussistente la situazione di bisogno, tutelata dall'art. 38 della Costituzione. Osservava, altresì, che la disuguaglianza di trattamento in questione non sarebbe in grado di mettere in pericolo l'unità familiare. E con la memoria, infine, l'INPS ripeteva identicamente le ragioni svolte nel procedimento pendente nei confronti di Marino Alderigi, e già ricordate. 3. - Nei cinque procedimenti civili, promossi contro l'INPS da Giuseppe Costa, Giovanni Milanesi, Giuseppe Sandrini, Mario Tassanelli e Luigi Canna, quali coniugi superstiti di pensionate dell'Istituto, onde ottenere il riconoscimento del diritto alla pensione di riversibilità, il tribunale di Pavia, con cinque ordinanze di identico contenuto, emesse il 24 febbraio 1972, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, comma quinto, della legge n. 903 del 1965 (che ha sostituito l'art. 13, comma quarto, della legge n. 218 del 1952) in riferimento agli artt. 3, 29 e 38 della Costituzione. Sarebbe violato il principio di eguaglianza, perché un'identica situazione (perdita del coniuge pensionato) viene disciplinata in maniera difforme e gravemente pregiudizievole per il marito superstite; la normativa che riconosce una posizione di favore alla moglie non troverebbe alcuna giustificazione (uomini e donne hanno, infatti, lo stesso diritto-dovere al lavoro, in base all'art. 4 della Costituzione) e si porrebbe, pertanto, in aperto contrasto con l'art. 3; e ulteriori profili di incostituzionalità potrebbero ravvisarsi sia nei confronti dell'art. 38 della Costituzione, che sancisce il diritto di ogni cittadino inabile all'assistenza sociale, sia nei confronti dell'art. 29 della Costituzione, che, prevedendo la parità giuridica dei coniugi, non dovrebbe permettere una diversa disciplina (a seconda che si tratti del marito o della moglie) di rapporti, anche previdenziali, nascenti dal matrimonio. Le ordinanze venivano regolarmente notificate, comunicate e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 122 del 10 maggio 1972. Davanti a questa Corte si costituivano, a mezzo dell'avv. Benedetto Bussi e con deduzioni depositate il 24 maggio 1972, Giuseppe Costa, Giovanni Milanesi, Giuseppe Sandrini, Mario Tassanelli e Luigi Canna, e l'INPS, a mezzo degli avvocati Arturo Pittoni e Luigi Rizzuti, con deduzioni depositate il 30 maggio 1972. Non spiegava intervento il Presidente del Consiglio dei ministri. L'avv. Bussi, con gli atti di deduzioni di identico contenuto, ripeteva le ragioni svolte a difesa del Papis nel procedimento già ricordato. E con la memoria, contestava che il legislatore avesse effettuato una scelta fondata su una realtà sociale per cui si doveva ritenere, a differenza di quel che accade in caso di morte del marito, che la morte della lavoratrice o della pensionata non producesse conseguenze rilevanti sulle condizioni economiche del vedovo. Osservava, anzitutto, che il fenomeno dell'occupazione femminile varia nel tempo ed in relazione alle condizioni economiche; e che, a proposito della questione de qua, andasse considerata la realtà sociale delle donne che lavorano o hanno lavorato e non di tutte le donne comprese quelle che non lavorano, la situazione cioè che si ha quando il reddito della donna lavoratrice è necessario al mantenimento suo come a quello del marito e dei figli, così come il reddito del marito è necessario al mantenimento suo, dei figli e della moglie. La morte dell'assicurata o della pensionata coniugata non produce sulle possibilità di sussistenza della famiglia, effetti meno deleteri di quelli causati dalla scomparsa dell'assicurato o pensionato coniugato, specie se si consideri che la donna, con l'applicazione dell'art. 37 della Costituzione, ha conseguito la parità salariale con l'uomo. In tal modo, non potendosi mettere a raffronto le percentuali di uomini e di donne che lavorano e che quindi sono assicurati, per trarne l'illazione che, nella società considerata nel suo complesso, sia più probabile che la moglie - in quanto casalinga - viva a carico del marito, si ha che di fronte ad una situazione comune a tutti i lavoratori, uomini o donne che siano, la denunciata disparità di trattamento non ha altra base se non la diversità di sesso e come tale è costituzionalmente illegittima. Secondo l'avv. Bussi sarebbe altresì violato l'art. 38 della Costituzione perché la norma denunciata priva il vedovo di quel diritto alla pensione di riversibilità che la legge ritiene invece di attribuire alla vedova (anche se non invalida) in esecuzione del principio sancito nell'art. 38 stesso. Ed infine non costituirebbe precedente contrario alla tesi sostenuta, la sentenza n. 119 del 1972 della Corte costituzionale, che riguarda le pensioni dei dipendenti statali e non quelle che sono dovute in base all'assicurazione generale obbligatoria e in forza di una normativa ispirata a principi diversi e con finalità peculiari proprie. L'INPS, che nei giudizi nascenti dalle ordinanze del tribunale di Pavia depositava memoria avente lo stesso contenuto di quelle depositate negli altri due giudizi (Alderigi e Papis) con le deduzioni esponeva le ragioni per le quali la questione a suo avviso sarebbe infondata. La diversa posizione della vedova e del vedovo risponde ad una realtà sociale tutt'ora esistente perché, normalmente, il marito guadagna assai più della moglie e in misura maggiore, se non preponderante, provvede al sostentamento della famiglia, e correlativamente la donna ha sul mercato del lavoro una minore competitività rispetto all'uomo e, quindi, in definitiva, una minore capacità di guadagno. La norma denunciata, d'altra parte, risponde perfettamente al disposto dell'art. 38 della Costituzione. Non è violato il primo comma, perché il relativo dettato, a parte il suo carattere programmatico e non precettivo, riguarda, soggettivamente, i cittadini in genere (e non i soggetti assicurati) e, oggettivamente, la pubblica assistenza (e non la previdenza sociale) e comunque presuppone l'inabilità al lavoro del cittadino (e per ciò l'art. 22 della citata legge n. 903 del 1965 sarebbe in armonia con l'art. 38, in quanto richiede l'esistenza di uno stato di invalidità). Non sarebbe neppure violato il secondo comma dell'art. 38 perché tale disposizione, fuori dei casi di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e disoccupazione involontaria, non dà ai lavoratori una tutela costituzionale. E risulterebbe altresì evidente che la diversa e più favorevole disciplina esistente eccezionalmente per la vedova trae origine dalla necessità di adeguare la legge ad una realtà sociale tuttavia esistente. Infine, la norma denunciata non sarebbe in contrasto con l'art. 29 della Costituzione perché la disposizione costituzionale non spiega riflesso nei rapporti giuridici del tutto estranei alla famiglia, come quelli nascenti dalle assicurazioni sociali obbligatorie.
Considerato in diritto:
1. - Con le ordinanze indicate in epigrafe della Corte di cassazione e dei tribunali di Como e di Pavia, viene sollevata una sola questione; i relativi giudizi sono, pertanto, riuniti e possono essere decisi con unica sentenza. La norma sospettata di illegittimità costituzionale trova identica espressione nell'art. 13, comma terzo, del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), convertito nella legge 6 luglio 1939, n. 1272; nel quarto comma del detto articolo, sostituito dall'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218, e nel quinto dello stesso articolo, sostituito dall'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903. Essa è denunciata dalla Corte di cassazione per contrasto con gli artt. 3, 37 e 38 della Costituzione, dal tribunale di Como per violazione del detto art. 3 nonché dell'art. 29, comma secondo, e dal tribunale di Pavia in quanto non conforme ai detti artt. 3, 29 e 38. 2. - Il profilo costante, anche se variamente configurato, sotto cui la questione è prospettata, è quello del mancato rispetto del principio di eguaglianza da parte del legislatore. Si fa riferimento alla norma secondo cui nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, in caso di morte dell'assicurato o pensionato coniugato, qualora superstite sia il marito, esso ha diritto alla pensione se è riconosciuto inabile al lavoro ai sensi dell'art. 10, comma primo, del citato r.d.l. n. 636 del 1939, e raffrontata codesta norma con la disciplina legislativa dell'ipotesi opposta e cioè del caso in cui superstite sia la moglie, si constata che le due situazioni che sarebbero identiche, sono regolate in maniera difforme e senza che la disparità di trattamento abbia una adeguata e razionale giustificazione. Nelle ordinanze, di identico contenuto, del tribunale di Pavia, invero, si osserva che "tale normativa che riconosce una posizione di favore alla moglie non trova alcuna giustificazione (uomini e donne hanno, infatti, lo stesso diritto-dovere al lavoro, art. 4 della Costituzione) e, pertanto, si pone in aperto contrasto con il citato art. 3 della Costituzione", ed in quella del tribunale di Como, rilevata l'esistenza "di due distinte situazioni giuridiche operate dall'ordinamento giuridico", si dice essere estraneo alla competenza del giudice ordinario l'accertamento di quale delle due situazioni sia lesiva di un precetto costituzionale, dovendo il giudice ordinario limitarsi a rilevare la disparità di trattamento. Ma codeste precisazioni e considerazioni non possono indurre questa Corte a ritenere che quanto meno da parte dei giudici ora indicati, la questione sia stata sollevata in termini più ampi o differenti da quelli già precisati ovvero che si sia inteso conclusivamente denunciare, in quanto lesiva del principio di eguaglianza, non la norma che prevede l'ipotesi in cui superstite sia il marito, sibbene l'intera disciplina della materia (e quindi anche la normativa che regola il caso in cui superstite sia la moglie). 3. - La denunciata violazione dell'art. 3 (e per quanto di ragione dell'art. 29, comma secondo) avrebbe la sua premessa e base nell'esistenza, nelle dette due ipotesi, di una identica situazione oggetto della disciplina normativa. Tale situazione, che per il tribunale di Pavia sarebbe rappresentata dalla "perdita del coniuge pensionato", è dagli altri giudici e nelle difese più ampiamente e correttamente individuata nel fatto del soggetto (coniugato, dell'uno o dell'altro sesso) che lavori e nella circostanza che la retribuzione (o il trattamento previdenziale o di quiescenza) serva al suo mantenimento, nonché a quello del coniuge e degli eventuali figli. La morte del lavoratore coniugato (sia esso uomo o donna) determinerebbe eguali effetti nei confronti del coniuge superstite e dei figli, che pertanto rimarrebbero senza il sostegno morale ed economico che ad essi proveniva dal defunto. All'individuazione e valutazione di codesta premessa, nell'ipotesi normativa in esame, la Corte ritiene che non si possa pervenire. In altra occasione, e precisamente in sede di esame della questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, comma sesto, della legge 15 febbraio 1958, n. 46, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, la Corte, con la recente sentenza n. 119 di quest'anno, ha ritenuto che non potessero essere qualificate eguali (e quindi meritevoli dello stesso trattamento giuridico) le situazioni conseguenti alla morte del dipendente o pensionato statale coniugato, qualora superstite fosse la moglie ovvero il marito, argomentando dalla considerazione della realtà sociale che, nonostante l'esistenza di una normativa (anche costituzionale) rivolta al conseguimento della parità giuridica tra i cittadini di ambo i sessi, denuncia tuttavia, nel campo del lavoro, "la minore probabilità che sia il marito anziché la moglie a dipendere economicamente dal coniuge, dipendente o pensionato statale" e fa apparire tale situazione come normale.In quell'occasione, la Corte nel valutare la premessa della norma allora in esame ha così, a proposito della situazione di fatto e giuridica presa in considerazione dal legislatore, tenuto conto della posizione del coniuge superstite. Ora, mentre ritiene di dover confermare, per la questione de qua, quella valutazione, è dell'avviso che alla medesima conclusione (eguaglianza o equivalenza delle due situazioni di fatto e giuridiche) debba pervenire portando il proprio esame, siccome proposto dalle ordinanze e soprattutto richiesto dalla difesa del Papis e del Costa ed altri, sullo stato delle cose precedente e coevo alla morte del lavoratore coniugato. Anche se è da ammettere che, in relazione ad una certa fascia di famiglie, ricorra la segnalata dipendenza economica del coniuge e dei figli dal lavoratore, uomo o donna che questo sia, bisogna, del pari e di contro, ritenere che al di fuori di quelle ipotesi; la cui frequenza di verificazione sarebbe comunque difficile da accertarsi e ragionevolmente dovrebbe stimarsi limitata, quella dipendenza economica del coniuge e dei figli dal lavoratore non ricorra necessariamente. E tale constatazione, secondo la Corte, non può non contribuire acché siano valutate non eguali o equivalenti le complessive situazioni di fatto e di diritto del dipendente o pensionato coniugato e connesse o conseguenti alla sopravvivenza del coniuge, dell'uno o dell'altro sesso. Nei confronti quindi di situazioni che non possono dirsi eguali o equivalenti, appare corretto che esistano discipline differenti. E specificamente è giustificato e ragionevole che il vedovo sia ammesso al trattamento in favore dei superstiti se invalido ai sensi dell'art. 10 e cioè se la sua capacità di guadagno in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente per infermità o difetto fisico o mentale, a meno della metà del suo guadagno normale, e che alla vedova il detto trattamento spetti senza bisogno che la stessa debba provare la detta diminuzione della capacità di guadagno. Non vi è quindi alcuna discriminazione fondata sulla diversità di sesso.4. - La violazione del principio di eguaglianza non ricorre neppure se la si consideri alla luce del disposto dell'art. 29, comma secondo, della Costituzione. Codesto profilo di illegittimità costituzionale è prospettato dai tribunali di Como e di Pavia, per i quali la norma che statuisce la parità morale e giuridica dei coniugi vige per i rapporti previdenziali nascenti dal matrimonio o per i rapporti che comunque si ricolleghino allo status di coniuge o di vedovo. E nelle difese si trova una conferma di questa tesi, e se ne ha uno sviluppo, ritenendosi che il trattamento di parità per i coniugi può cedere solo davanti all'esigenza di salvaguardare l'unità familiare, e si assume che nella specie la eguaglianza non porrebbe in pericolo la detta unità. Ad avviso della Corte, la prospettata illegittimità costituzionale non ricorre. Anzitutto, si è constatato che il legislatore si rivolge a disciplinare situazioni di fatto e di diritto che non sono eguali o equivalenti, e che quindi per il vedovo e per la vedova, nell'ipotesi in esame, è ragionevolmente dettata una disciplina differenziata. Il fatto che costoro siano soggetti del rapporto coniugale, peraltro modificato nella sua originaria consistenza per la morte di uno di essi, non comporta che in materia previdenziale, legislativamente debbano essere trattati allo stesso modo. Il principio di eguaglianza, posto in generale dall'art. 3, trova nell'art. 29, comma secondo, siccome in altre disposizioni della Costituzione, la sua conferma e specificazione. Ma l'art. 29, comma secondo, ha un ambito di riferimento ben definito (che è dato dai rapporti che nascono dal matrimonio) per cui non è consentito ritenere che in esso rientrino (e che quindi godano di questa particolare tutela) rapporti come quelli previdenziali, i cui soggetti sono l'assicurante, l'ente assicuratore e l'assicurato e per i quali rileva che quest'ultimo sia un prestatore di lavoro, ininfluente essendo - per la caratterizzazione del rapporto stesso - che esso sia di un dato sesso anziché di un altro, di stato libero o meno, separato, vedovo, e così via. 5. - Agli artt. 37 e 38 si riporta con la sua ordinanza la Corte di cassazione, che ne denunzia peraltro la diretta violazione, per dare un fondamento giuridico-costituzionale alla assunta eguaglianza di posizioni del vedovo e della vedova, in caso di morte del lavoratore assicurato o del pensionato dell'INPS. Escluso che si possa ravvisare sussistente tale pretesa eguaglianza (anche alla luce - come si è precisato - della stessa normativa costituzionale, e quindi anche dei detti articoli), viene meno sostanzialmente il profilo sono cui le due disposizioni sono state invocate dalla Cassazione. In particolare, l'art. 37 che riserva alla donna la garanzia della parità di trattamento nei confronti dell'uomo circa i diritti al lavoro e quelli conseguenti alla prestazione del lavoro stesso, non mette in forse la tutela di codesta esigenza, non essendo l'impugnativa rivolta nei confronti della normativa (più favorevole) che proprio riguarda la donna. E l'art. 38, comma primo, poi, di cui il tribunale di Pavia assume la violazione diretta, per ciò che esso sancisce il diritto di ogni cittadino inabile al lavoro all'assistenza sociale, non è utilmente invocato. Che anzi c'è da rilevare come quella disposizione, qualora se ne ammettesse l'applicabilità alla specie, risulterebbe pienamente osservata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del r.d.l. 14 aprile 1939, n. 636 (modificazioni delle disposizioni sulle assicurazioni obbligatorie per l'invalidità e la vecchiaia, per la tubercolosi e per la disoccupazione involontaria), convertito in legge con legge 6 luglio 1939, n. 1272, sostituito con l'art. 2 della legge 4 aprile 1952, n. 218 (riordinamento delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti), e con l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903 (avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), nella parte in cui, nell'ambito della disciplina delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, dispone che, se viene a morte un pensionato o assicurato e se superstite è il marito, la pensione di riversibilità è a questo corrisposta, nel caso in cui esso sia riconosciuto invalido al lavoro ai sensi del primo comma dell'art. 10 del detto r.d.l. n. 636 del 1939, questione sollevata dalla Corte di cassazione e dai tribunali di Como e di Pavia, con le ordinanze indicate in epigrafe, in riferimento agli artt. 3, 29, 37 e 38 della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1972. COSTANTINO MORTATI - GIUSEPPE VERZÌ - GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI - FRANCESCO PAOLO BONIFACIO - LUIGI OGGIONI - ANGELO DE MARCO - ERCOLE ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI - NICOLA REALE - PAOLO ROSSI - LEONETTO AMADEI - GIULIO GIONFRIDA. ARDUINO SALUSTRI - Cancelliere
| |