N. 30 SENTENZA 28 GENNAIO 1983
Deposito in cancelleria: 9 febbraio 1983. Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 46 del 16 febbraio 1983. Pres. e Rel. ELIA
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI - Dott. FRANCESCO SAJA - Prof. GIOVANNI CONSO, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale: 1) dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, sulla cittadinanza italiana, e dell'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile; 2) degli artt. 1, n. 1, e 2, comma 2, della detta legge 13 giugno 1912, n. 555, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 23 gennaio 1978 dal Tribunale per i minorenni di Firenze sul ricorso proposto da Bettalli Maria Silvia, iscritta al n. 167 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 154 del 5 giugno 1978; 2) ordinanza emessa il 3 ottobre 1980 dal Tribunale per i minorenni di Milano sul ricorso proposto da Velonas Sotiris, iscritta al n. 232 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 234 del 26 agosto 1981; 3) ordinanza emessa il 18 febbraio 1981 dal Tribunale di Milano nel procedimento civile vertente tra Pincella Anna Maria, esercente la patria potestà sul figlio minore Rahmani Ahmed e l'Amministrazione degli Affari Interni, iscritta al n. 633 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 345 del 16 dicembre 1981. Visti l'atto di costituzione di Pincella Anna Maria e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1982 il Giudice relatore Leopoldo Elia; udito l'avvocato dello Stato Renato Carafa, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto:
1. - Il Tribunale per i minorenni di Firenze, decidendo su un'istanza per la dichiarazione di decadenza della potestà del padre su figlio naturale riconosciuto da madre italiana e da padre portoghese, rilevato che nella specie avrebbe dovuto trovare applicazione la legge portoghese, in virtù dell'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile, con ordinanza emessa il 23 gennaio 1978, sollevava questione di legittimità costituzionale di tale norma e dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, per contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione. Osservava al riguardo che a giustificare sia l'attribuzione della cittadinanza del padre al figlio naturale sia la preferenza della legge di nazionalità del padre per regolare i rapporti tra genitori e figli sarebbe vano invocare il principio di salvaguardia dell'unità familiare posto dall'art. 29 della Costituzione, trattandosi nella specie di filiazione naturale cui tale principio è estraneo. In realtà la scelta del legislatore sembra ispirata, come in altra specie si è espressa la Corte costituzionale con sentenza numero 87 del 1975, alla "concezione imperante nel 1912 di considerare la donna come giuridicamente inferiore all'uomo e addirittura come persona non avente la completa capacità giuridica, (...) concenzione che non risponde anzi contrasta coi principi della Costituzione, che attribuisce pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di sesso". Una corretta applicazione del principio di eguaglianza, invece, dovrebbe importare che il figlio naturale è cittadino italiano per nascita non solo se è figlio di padre (naturale) italiano ma anche quando è figlio di madre (naturale) italiana, indipendentemente dal non - riconoscimento paterno o dal fatto che, per la legge nazionale del padre naturale, il figlio non possa seguire la cittadinanza paterna: d'altronde il fenomeno della doppia cittadinanza - peraltro, introdotto dall'art. 143 ter del codice civile relativamente alla donna italiana che sposi uno straniero - non sarebbe più un problema in un'epoca quale è la nostra. Lo stesso discorso varrebbe per l'art. 20 preleggi: scegliere la legge nazionale del padre naturale quale quella che regola i rapporti tra genitori e figli, anche quando il figlio è riconosciuto dalla madre di diversa cittadinanza, sarebbe discriminatorio per la donna, la quale ha il diritto costituzionale garantito ad una posizione di eguaglianza rispetto all'uomo. La scelta in questione sarebbe poi ulteriormente discriminatoria fra figli naturali minori e figli legittimi minori di genitori di cittadinanza diversa. Infatti mentre questi ultimi, in caso di sciolgimento del matrimonio dei genitori, divengono cittadini italiani se la madre italiana esercita su di loro la potestà parentale, i primi restano per sempre stranieri, anche se l'unione di fatto dei genitori sia venuta meno e salva la naturalizzazione di cui all'art. 3 della legge n. 555 del 1912. Infine, stabilire che i rapporti tra figli minori e genitori naturali siano regolati sempre e comunque dalla legge del padre e non dalla legge nazionale del genitore con il quale il minore vive sarebbe gravemente lesivo del diritto del minore strsso a svolgere la sua personalità nella formazione sociale familiare, in contrasto con l'art. 2 della Costituzione. 2. - L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Dinanzi alla Corte costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. Nel chiedere che le questioni siano dichiarate non fondate, l'Avvocatura osserva, quanto all'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile, che il legislatore, nel determinare nella legge nazionale del padre quella applicabile ai rapporti tra genitori e figli, ha operato una scelta non irrazionale né discriminatoria come non irrazionale né discriminatorio sarebbe stato optare a favore della legge nazionale della madre. D'altronde, se si dovesse optare per la legge nazionale del minore (che, nella supposizione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge n. 555 del 1912, sarebbe quella italiana) o del genitore col quale il minore vive, tale scelta non risponderebbe di per sé all'interesse del minore a sviluppare la propria personalità nell'ambiente sociale in cui è inserito. Rileva infatti l'Avvocatura che solo occasionalmente, nella fattispecie, la legge nazionale del minore - ipotizzata dal tribunale come la più idonea a risolvere il caso - si identifica con quella italiana; che se il minore nella medesima situazione si trovasse a vivere con la madre in un Paese terzo (esclusi cioè il Portogallo e l'Italia) il giudice colà adito, in virtù delle norme del proprio ordinamento interno, potrebbe ritenere che la salvaguardia dei principi più sopra enunciati sia garantita unicamente dalla legge del Paese ove il minore effettivamente risiede. Per quanto attiene, poi, alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge sulla cittadinanza italiana, una volta che l'art. 20 delle preleggi appare costituzionalmente legittimo, tale questione sembra irrilevante, poiché in ogni caso nella specie dovrà trovare applicazione la legge portoghese, la legge cioè del padre naturale del minore, legittimamente scelta dal legislatore ordinario come legge regolatrice nel caso di diversa cittadinanza dei genitori. 3. - Nel corso di un procedimento per riconoscimento di paternità promosso da Velonas Sotiris, cittadino greco, nei confronti del figlio naturale Mori Giorgio, resistendo la madre Giulia Mori alla domanda di sostituzione del cognome del figlio e dovendosi applicare la legge dello Stato cui il minore appartiene (art. 17 disp. prel. cod. civ.; diritto sostanziale greco che prevede in caso di riconoscimento la automatica assunzione del solo cognome paterno), il Tribunale per i minorenni di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui collega al riconoscimento paterno l'effetto automatico dell'acquisto della cittadinanza del padre e la perdita di quella della madre. Il Tribunale dubita della compatibilità della norma denunziata con gli artt. 3 e 29 della Costituzione, in primo luogo in quanto essa sarebbe ispirata dalle norme di diritto familiare in vigore nel 1912, che prevedevano il solo padre quale titolare normale della patria potestà. Ciò peraltro nell'attuale assetto normativo appare del tutto ingiustificato e immotivatamente riduttivo della posizione della madre naturale. A questo proposito ritiene il tribunale che il principio di uguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna affermato dall'art. 3 della Costituzione e, per quanto riguarda i rapporti familiari, dall'art. 29, deve essere applicato anche al di fuori dell'istituto matrimoniale, a situazioni di libera unione. Infatti non potrebbe ammettersi che solo all'interno del matrimonio la donna trovi garanzia e riconoscimento della sua pari dignit', e che, al di fuori di esso, rimanga, per quanto attiene ai rapporti familiari, la prevalenza maschile, astrattamente prevista senza tenere conto del concreto interesse del minore. Ma anche sotto un altro profilo la norma in esame sembra censurabile: non è infatti motivata la diversità di trattamento prevista a seconda che il figlio riconosciuto abbia o meno compiuto il 18 anno di età. Nel primo caso infatti il riconosciuto mantiene la possibilità di scegliere tra la cittadinanza italiana e quella diversa del padre, mentre se il figlio è minorenne tale possibilità non esiste, e la scelta effettuata dal genitore è per lui definitiva. L'ordinanza è stata regolarmente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Nessuno si è costituito dinanzi alla Corte costituzionale. 4. - Nel corso del procedimento civile promosso da Anna Maria Pincella, cittadina italiana, madre esercente la potestà sul minore Ahmed Rahamani, figlio di cittadino marocchino, e volto ad ottenere la cittadinanza italiana del minore, il Tribunale di Milano, con ordinanza emessa il 18 febbraio 1981, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 1, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui non prevede che il figlio di cittadina italiana, che abbia conservato la cittadinanza anche dopo il matrimonio con lo straniero, abbia la cittadinanza italiana, in riferimento agli artt. 3 e 29, 2 comma, della Costituzione. Secondo il Tribunale, la norma denunziata, superstite espressione di una diversa posizione morale e giuridica dei coniugi, non appare giustificabile con il superiore principio dell'unità familiare e come tale attua una disparità non motivata di trattamento tra marito e moglie. 5. - L'ordinanza è stata regolamente notificata, comunicata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale. Dinanzi alla Corte costituzionale si è costituita Anna Maria Pincella, rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Merla che, ribadendo le argomentazioni svolte dall'ordinanza, insiste per l'accoglimento della questione.
Considerato in diritto:
1. - Le tre ordinanze riassunte in narrativa sollevano questioni di legittimità costituzionale eguali o connesse; perciò i relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza. 2. - Deve innanzitutto essere verificata la ammissibilità delle questioni sollevate con l'ordinanza del Tribunale per i minorenni di Firenze. Infatti la rilevanza del petitum in ordine all'art. 1, n. 2, legge 13 giugno 1912, n. 555, dipende dalla possibilità di sottoporre al sindacato di costituzionalità l'art. 20 delle disposizioni prel iminari al co dice civile (in relazione, nei due casi, agli artt. 2 e 3 Cost.), art. 20 che comporterebbe l'applicazione alla specie della legge portoghese; e ciò in contrasto con l'istanza della madre italiana per la dichiarazione di decadenza dalla potestà sul figlio naturale del padre straniero. Peraltro la questione di legittimità costituzionale nei confronti dell'art. 20 preleggi è sollevata in riferimento a contenuti normativi che risultano al tempo stesso diversi e considerati, per così dire, alla pari: in effetti l'art. 20 è impugnato "o nella parte in cui stabilisce che i rapporti tra i genitori e figli naturali sono regolati dalla legge nazionale del padre anche quando la madre italiana abbia riconosciuto il figlio o perché non stabilisce che la legge regolatrice dei rapporti tra i genitori e figli naturali è quella del genitore con cui il figlio, se minore, vive". Ma l'ambivalenza della questione in ordine all'art. 20 preleggi non può in questa sede essere superata, sicché riesce non identificabile il thema decidendum sottoposto al giudice della costituzionalità delle leggi. Pertanto le questioni sollevate dal Tribunale per i minorenni di Firenze devono essere dichiarate inammissibili. 3. - Per la sua priorità nell'ordine logico, e perché concerne l'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912, va esaminata per prima la questione sollevata dal Tribunale di Milano (in causa Pincella contro Ministero Interno) in riferimento alla disposizione ora citata "nella parte in cui non prevede che il figlio di cittadina italiana, che abbia conservato la cittadinanza anche dopo il matrimonio con lo straniero, abbia la cittadinanza italiana". In realtà tale norma differenzia la situazione del marito straniero da quello della moglie italiana quanto all'acquisto della cittadinanza italiana da parte dei discendenti diretti del cittadino. Questa discriminazione tra coniugi in ordine alla determinazione dello status civitatis dei figli legittimi comporta inoltre conseguenze molteplici e di non secondario rilievo, quando si consideri che alla cittadinanza si riconnettono situazioni soggettive di segno diverso e di disparato contenuto, ma tutte raggruppabili in una condizione complessivamente positiva nell'ambito dell'ordinamento italiano. L'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 è in chiaro contrasto con l'art. 3, 1 comma, (eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso) e con l'art. 29, 2 comma, (eguaglianza morale e giuridica dei coniugi). Né giustifica la differenziata disciplina in tema di acquisto della cittadinanza per nascita il richiamo ad un limite all'eguaglianza tra i coniugi, stabilito dalla legge a garanzia della unità familiare. Tra l'altro non si vede come la diversità di cittadinanza tra i coniugi, ammessa dalla sentenza n. 87/1975 e dall'art. 143 ter codice civile (introdotto dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia), sia stata ritenuta compatibile con l'unità familiare, mentre non potrebbe esserlo l'attribuzione congiunta al figlio minore della cittadinanza paterna e di quella materna.Nemmeno varrebbe poi, a giustificare il mancato ossequio ai principi degli artt. 3, primo comma, e 29, secondo comma, l'esigenza di evitare i fenomeni di doppia cittadinanza, per gli impegni assunti anche in sede internazionale (cfr. Convenzione di Strasburgo del 1963, la cui ratifica fu autorizzata con L. 4 ottobre 1966, n. 876, e depositata dall'Italia con alcune riserve). Deve infatti riconoscersi come prevalente, rispetto ad inconvenienti pur seri, la necessità di realizzare il principio costituzionale di eguaglianza anche a proposito di acquisto dello status civitatis per nascita. Né fanno difetto al legislatore i mezzi per ridurre in limiti tollerabili le difficoltà nascenti dalla pluralità di cittadinanze in capo al figlio. Del resto anche la sentenza n. 87 del 1975 e l'art. 143 ter del codice civile danno luogo a casi di doppia cittadinanza senza che ciò sia valso a porre in dubbio il fondamento costituzionale delle soluzioni adottate. In questo senso la odierna pronuncia costituisce la logica proiezione, in tema di acquisto della cittadinanza per nascita, della ratio decidendi accolta nella sentenza n. 87 del 1975. Tale ratio, più che porre in rilievo la volontà del soggetto, consiste proprio nel riconoscimento delle conseguenze che derivano dai principi affermati nell'art. 3, primo comma, e nell'art. 29, secondo comma, della Costituzione. Invero, anche nella fattispecie ora esaminata, ciò che si valorizza è l'esigenza di una assimilazione giuridica nella comunità statale di coloro che vengono considerati, effettivamente o potenzialmente, integrati nella realtà socio - politica che l'ordinamento deve regolare. Tale rilievo, accolto dalla dottrina italiana che più si è occupata delle tendenze evolutive del diritto della cittadinanza in ambito europeo, corrisponde anche alla evoluzione del nostro diritto quale emerge dalla legge di riforma del diritto di famiglia del 1975 e dalla giurisprudenza di questa Corte. Certo non si può parlare, in senso tecnicamente proprio, di un diritto dei genitori di "trasmettere ai figli" i rispettivi status civitatis: è sempre l'ordinamento statale a prevedere le fattispecie nelle quali si realizza l'acquisto della cittadinanza jure sanguinis, acquisto che, dal punto di vista giuridico, esclude ogni trasferimento o trasmissione. Ciò non toglie che la disciplina attuale, con il prevedere l'acquisto originario soltanto della cittadinanza del padre, lede da più punti di vista la posizione giuridica della madre nei suoi rapporti con lo Stato e con la famiglia. In particolare non può contestarsi l'interesse, giuridicamente rilevante, di entrambi i genitori a che i loro figli siano cittadini e cioè membri di quella stessa comunità statale di cui essi fanno parte e che possano godere della tutela collegata a tale appartenenza. Del pari la disciplina vigente lede la posizione della madre nella famiglia, se si considera la parità nei doveri e nella responsabilità verso i figli ormai affermata negli ordinamenti giuridici del nostro tempo (per l'Italia valgono soprattutto i novellati artt. 143 e 147 del codice civile). In definitiva, l'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 rappresenta una tipica espressione della diversità di posizione giuridica e morale dei coniugi, ritenuta necessaria dal legislatore di quel tempo per realizzare l'unità familiare, mediante l'assoggettamento della moglie e dei figli alla condizione, rispettivamente, del marito e del padre. Né va dimenticato che la disciplina impugnata contrasta con il principio di eguaglianza, giacché tratta in modo diverso i figli legittimi di padre italiano e di madre straniera rispetto ai figli legittimi di padre straniero e madre italiana. Pertanto deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina. In applicazione, poi, dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, va pure dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge sulla cittadinanza, che collega l'acquisto della cittadinanza materna da parte del figlio soltanto ad ipotesi di carattere residuale. 4. - L'ordinanza del Tribunale per i minorenni di Milano solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, 2 comma, della legge n. 555 del 1912, in riferimento agli artt. 3 e 29 della Costituzione. Lasciando da parte l'art. 29, che riguarda la famiglia fondata sul matrimonio, è da chiedersi se la citata disposizione, prevedendo che il riconoscimento del padre, nella fattispecie straniero, abbia l'effetto automatico e necessario di fare acquisire al figlio minore la cittadinanza straniera e di fargli perdere quella italiana acquisita per il previo riconoscimento materno, risulti in armonia con l'art. 3, primo comma, della Costituzione. Quanto si è detto sopra vale a fortiori per escludere la legittimità costituzionale del precetto impugnato. In effetti, cade in questa fattispecie anche il richiamo alla ratio dell'unità familiare, posta a fondamento della disciplina dell'art. 1, n. 1. Viene qui in evidenza la disparità di trattamento in ragione di sesso e la discriminazione conseguenziale in ordine allo status dei figli minori, senza che sia necessario indugiare sui gravi inconvenienti pratici sottolineati nell'ordinanza. Deve quindi dichiararsi l'illegittimità costituzionale del 2 comma dell'art. 2 della legge n. 555 del 1912. 5. - La Corte è consapevole del travagliato iter che in sede parlamentare, nel corso di più legislature si è svolto e si svolge tuttora in tema di riforma delle leggi sulla cittadinanza e sul suo adeguamento alla Costituzione, agli accordi internazionali ed alle mutate condizioni di vita nella famiglia e fuori di essa. Pur tenuto conto della complessità della materia, essa ritiene tuttavia che sia quanto mai necessaria ed urgente una revisione organica dell'intera normativa sulla cittadinanza, revisione che tenga conto di tutti i collegamenti tra una nuova disciplina e le regole del diritto internazionale privato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555, e dell'art. 20 delle disposizioni preliminari al codice civile, sollevate in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione dal Tribunale per i minorenni di Firenze; 2) dichiara l'illegittimità costituzionale: a) dell'art. 1, n. 1, della legge 13 giugno 1912, n. 555, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina; b) dell'art. 2, comma 2, della legge predetta; 3) dichiara - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 2, della legge 13 giugno 1912, n. 555.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 1983. F.to: LEOPOLDO ELIA - ANTONINO DE STEFANO - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI - GIUSEPPE FERRARI - FRANCESCO SAJA - GIOVANNI CONSO. GIOVANNI VITALE - Cancelliere
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