Università di Torino: Dipartimento di Scienze Giuridiche

Tecniche Interpretative della Corte Costituzionale

Sentenza numero 0148 del 1983 inserita nel sistema il 10/11/2012
Pronuncia: Pronuncia di rigetto
Argomenti di altre disposizioni rilevanti per la pronuncia:
-Argomento ab exemplo (riferimento ai propri precedenti)
-Argomento della coerenza (orizzontale: interlegislativo)
Disposizione oggetto: legge 1/1981 art.5:
-Argomento letterale (considerazioni di ordine sintattico grammaticale)
-Argomento a fortiori (a minori ad maius)

N. 148
SENTENZA 2 GIUGNO 1983

Deposito in cancelleria: 3 giugno 1983.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 163 del 15 giugno 1983.
Pres. ELIA - Rel. PALADIN

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente - Dott.
MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN
- Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO
MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof.
ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI
- Dott. FRANCESCO SAJA - Prof. GIOVANNI CONSO - Prof. ETTORE GALLO,
Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge
3 gennaio 1981, n. 1 (Componenti del Consiglio superiore della
magistratura: non punibilità per le opinioni espresse nell'esercizio
delle loro funzioni e concernenti l'oggetto della discussione) promosso
con ordinanza emessa il 31 gennaio 1983 dal giudice istruttore del
tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Bertoni Raffaele
ed altri iscritta al n. 113 del registro ordinanze 1983 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46 del 1983.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella pubblica udienza del 12 aprile 1983 il Giudice relatore
Livio Paladin;
udito l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti per il Presidente del
Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto:

1. - In un procedimento penale a carico di alcuni componenti del
Consiglio superiore della magistratura, imputati di interesse privato
in atti di ufficio, il giudice istruttore del Tribunale di Roma ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della
legge 3 gennaio 1981, n. 1 (sulla non punibilità dei componenti il
Consiglio superiore per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro
funzioni e concernenti l'oggetto della discussione), in riferimento
agli artt. 3, primo comma, 28 e 112 della Costituzione.
Circa la riconducibilità delle condotte in esame alla norma
impugnata, il pubblico ministero aveva concluso in senso negativo,
ritenendo che quell'esimente "non poteva estendersi ai fatti-reato
diversi dalle offese all'onore e alla reputazione". Per contro, il
giudice a quo procede dalla premessa che il citato art. 5 riguardi
qualunque manifestazione di pensiero, esposizione di fatti,
formulazione di giudizi, dichiarazione di volontà ...: con la
conseguenza che i comportamenti denunciati (pur consistendo in
"informazioni parziali o travisate, insinuazioni capziose, attestazioni
false, affermazioni calunniose, ecc.") "rientrerebbero... nella
valutazione scriminante".
Nel merito, "istituendo una frangia di funzionari sciolti dalla
legge penale nel delineato esercizio o meglio abuso delle pubbliche
funzioni", la norma in questione verrebbe però a contrastare con una
serie di principi costituzionali: con l'art. 28 Cost., perché
ridurrebbe l'area della responsabilità penale di pubblici funzionari,
quali sono pur sempre - si afferma - i componenti del Consiglio
superiore della magistratura; con il "principio dell'obbligatorietà
dell'azione del P.M.", cui non si potrebbe derogare - secondo la
giurisprudenza della Corte - se non eccezionalmente e per mezzo di
norme costituzionali; con il principio generale d'eguaglianza, per
l'ingiustificata disparità di trattamento che ne discenderebbe. Non
sembra, infatti - rileva il giudice istruttore - "che la norma
dell'art. 5 poggi su un plausibile sostrato, tanto più che nel regime
repubblicano i diritti di libertà assicurati a tutti i cittadini e
l'indipendenza della magistratura, che si ravvisa proprio nella sua
esclusiva incondizionata soggezione alla legge, appaiono da sole
sufficienti a tutelare i funzionari che adempiono al loro dovere,
mentre proteggere chi il proprio dovere non compie sarebbe ingiusto e
antidemocratico".
2. - Intervenuto nel presente giudizio, il Presidente del consiglio
dei ministri ha eccepito anzitutto che la proposta questione sarebbe
inammissibile per difetto di rilevanza. In ogni caso, infatti, il
principio d'irretroattività stabilito in materia penale all'art. 25
cpv. Cost. escluderebbe che siano punibili - per effetto di un
eventuale annullamento della norma impugnata - "condotte... poste in
essere antecedentemente, quando, cioè, in vista della causa di non
punibilità in esame, la punibilità era esclusa".
Per altro, la questione sarebbe comunque infondata. Premesso che la
norma impugnata avrebbe inteso prevedere una "causa di non punibilità"
(come si ricaverebbe dai lavori preparatori), l'atto di intervento
assume che previsioni del genere possano legittimamente contenersi in
leggi ordinarie, purché "coerenti con le disposizioni della stessa
Costituzione ". Ora, sul medesimo piano di analoghe fattispecie
costituzionalmente rilevanti (quale, soprattutto, la cosiddetta
immunità parlamentare), anche la norma in esame dovrebbe, da un lato,
collegarsi alle generalissime cause di giustificazione dell'esercizio
di un diritto e dell'adempimento di un dovere, di cui all'art. 51 cod.
pen.; e, d'altro lato, si fonderebbe sull'"esigenza di consentire che
con l'assoluta libertà di manifestare le proprie opinioni i componenti
del Consiglio superiore della magistratura possano assicurare
l'indipendenza dell'ordine giudiziario per la quale quel Consiglio
opera...". Sotto quest'ultimo aspetto, l'art. 5 della legge n. 1 del
1981 sarebbe dunque "espressione del principio di ordine costituzionale
di cui al primo comma dell'art. 104 della Carta costituzionale dello
Stato".
Con ciò, del resto, non si sarebbe contraddetto nessuno dei
parametri costituzionali invocati dal giudice a quo: non l'art. 112,
dal momento che la norma impugnata non avrebbe introdotto alcuna
ipotesi di garanzia amministrativa o di autorizzazione a procedere,
bensì avrebbe escluso che i fatti in questione costituiscano reato,
senza interferire nell'obbligo di esercitare l'azione penale, gravante
sul pubblico ministero quanto ai fatti- reato; non l'art. 28, che non
concernerebbe la "responsabilità per atti leciti" e non escluderebbe
la previsione della liceità delle condotte in questione; e neppure
l'art. 3 Cost., non potendosi "porre sullo stesso piano agli effetti
della manifestazione del proprio pensiero il comune cittadino nella sua
normale attività quotidiana, od anche il comune funzionario, ed il
componente del Consiglio superiore della "magistratura", nell'esercizio
delle proprie funzioni.
3. - Nella pubblica udienza, l'Avvocatura dello Stato ha dato atto
- in particolar modo - che la tesi dell'inammissibilità delle
impugnative concernenti norme penali di favore si fonda su una linea
giurisprudenziale più volte seguita dalla Corte, ma contraddetta da
altre coeve decisioni; ed ha pertanto invitato la Corte stessa a
definire in termini univoci il proprio orientamento sul delicato
problema.

Considerato in diritto:

1. - Stando all'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri, sarebbe preclusa alla Corte ogni indagine sulla legittimità
costituzionale dell'art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1.
La disposizione impugnata dal giudice istruttore del Tribunale di
Roma conterrebbe, infatti, una disciplina penale di favore, quanto alle
opinioni espresse dai componenti il Consiglio superiore della
magistratura. Ma, precisamente in tal senso, l'impugnativa risulterebbe
per definizione irrilevante nel giudizio a quo, in virtù del primo
capoverso dell'art. 25 Cost., per cui "nessuno può essere punito se
non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso". In ogni caso, cioè, quand'anche annullata dalla Corte, la
norma in questione continuerebbe ad operare a beneficio degli imputati,
trattandosi di condotta posta in essere antecedentemente all'eventuale
decisione di accoglimento.
2. - Ora, sul tema dei limiti che le impugnazioni ed il conseguente
sindacato di legittimità delle leggi subiscono per effetto dei
principi costituzionali di legalità e d'irretroattività dei reati e
delle pene, questa Corte si è già pronunciata in diverse occasioni.
Ma la complessa problematica non è stata compiutamente risolta.
Più di preciso, la giurisprudenza della Corte può considerarsi
ormai consolidata, per ciò che riguarda il principio di legalità,
inteso nei termini già fissati dall'art. 1 cod. pen.: nel senso che
sono state ripetutamente dichiarate inammissibili (da ultimo, con la
sentenza n. 71 del presente anno) le impugnazioni attraverso le quali
si richiedeva, in sostanza, che la Corte configurasse nuove norme
penali, così determinando conseguenze sfavorevoli per l'imputato. Ma
riesce evidente che il caso in esame non rientra in questo quadro,
poiché il giudice istruttore del Tribunale di Roma non ha ipotizzato
alcuna decisione di accoglimento additivo; bensì ha prospettato
l'esigenza che il regime penale dei componenti il Consiglio superiore
della magistratura venga ricondotto nell'ambito delle norme di diritto
comune, mediante una pura e semplice dichiarazione d'illegittimità
costituzionale dell'intera disposizione impugnata.
Per quanto invece riguarda il principio d'irretroattività, le
sentenze che lo hanno preso in considerazione durante lo scorso
decennio si collocano su due versanti opposti. Da un lato, cioè,
stanno le pronunce con cui sono state ritenute ammissibili impugnative
concernenti norme penali di favore, in base all'assunto che le
questioni inerenti "alla cosiddetta retroattività delle decisioni di
accoglimento della Corte costituzionale attengono all'interpretazione
delle leggi e pertanto devono essere risolte dai giudici ordinari"
(cfr. le sentenze n. 155 del 1973 e n. 22 del 1975). D'altro lato,
varie decisioni contemporanee o di poco successive (si vedano, in
particolare, le sentenze n. 26 del 1975, n. 85 del 1976, n. 122 del
1977 e n. 91 del 1979) hanno per contro affermato che il tassativo
disposto degli artt. 25, secondo comma, della Costituzione e 2 del
codice penale imporrebbe in ogni caso al giudice di applicare nella
concreta fattispecie la norma impugnata, quand'anche viziata
d'incostituzionalità: donde l'inammissibilità di siffatte questioni
per difetto di rilevanza, in base alla stessa argomentazione sviluppata
- nell'attuale giudizio - dall'Avvocatura dello Stato.
È chiaro, però, che a voler seguire fino in fondo quest'ultimo
orientamento ne deriverebbero implicazioni assai gravi, specialmente in
ipotesi come quella in esame. Norme sicuramente applicabili nel
giudizio a quo, in ordine alle quali si producessero dubbi di
legittimità costituzionale, non ritenuti dal giudice manifestamente
infondati, rischierebbero di sfuggire ad ogni sindacato della Corte,
non essendo mai pregiudiziale la loro impugnazione; e la Corte stessa
verrebbe in tal senso privata - quanto meno nei giudizi instaurati in
via incidentale - di ogni strumento atto a garantire la preminenza
della Costituzione sulla legislazione statale ordinaria. In presenza di
previsioni sul tipo dell'art. 5 della legge n. 1 del 1981, quand'anche
lesive degli imperativi costituzionali di eguaglianza in materia
penale, non sarebbe infatti utilizzabile nemmeno l'estremo rimedio di
un annullamento dell'intera disciplina entro la quale si fosse prodotta
l'ingiustificata disparità di trattamento (come si è verificato nel
caso della sentenza n. 147 del 1969, sulla contemporanea dichiarazione
d'illegittimità costituzionale dei delitti di relazione adulterina e
di concubinato).
Ed è appunto in vista di tali conseguenze, che si rende ora
necessario riconsiderare il problema.
3. - Al di là delle apparenze, questa Corte è dell'avviso che
entrambi gli orientamenti giurisprudenziali già emersi in tal campo
contengano, sia pure su piani diversi, essenziali elementi di verità.
Anche nella presente occasione, si deve anzitutto ripetere che
nessun soggetto, imputato di aver commesso un fatto del quale una norma
penale abbia escluso l'antigiuridicità, potrebbe venire penalmente
condannato per il solo effetto d'una sentenza di questa Corte, che
dichiarasse illegittima la norma stessa. È un fondamentale principio
di civiltà giuridica, elevato a livello costituzionale dal secondo
comma dell'art. 25 Cost. (e già puntualizzato - per ciò che
attualmente interessa - dal primo comma dell'art. 2 cod. pen.), ad
esigere certezza ed irretroattività dei reati e delle pene; né le
garanzie che ne derivano potrebbero venire meno, se non compromettendo
l'indispensabile coerenza dei vari dettati costituzionali, di fronte ad
una decisione di accoglimento. Sebbene privata di efficacia ai sensi
del primo comma dell'art. 136 Cost. (e resa per se stessa inapplicabile
alla stregua dell'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953),
quanto al passato la norma penale di favore continua perciò a
rilevare, in forza del prevalente principio che preclude la
retroattività delle norme incriminatrici.
Senonché questo primo dato non basta a risolvere il problema.
Altro, infatti è la garanzia che i principi del diritto
penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo
l'efficacia spettante alle dichiarazioni d'illegittimità delle norme
penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur
sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto
impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione
ordinaria diverrebbe incontrollabile. Né giova replicare che un tale
inconveniente è imposto dalla logica del processo costituzionale, vale
a dire dalla necessaria incidenza delle decisioni di questa Corte sugli
esiti dei giudizi in cui siano stati promossi gli incidenti di
costituzionalità. Indipendentemente dalla sorte degli imputati, è
indubbio che nella prospettiva del giudice a quo, cioè del promotore
degli incidenti in questione, anche le pronunce concernenti la
legittimità delle norme penali di favore influiscano o possano
influire sul conseguente esercizio della funzione giurisdizionale.
In primo luogo, l'eventuale accoglimento delle impugnative di norme
siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o,
quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali: i quali dovrebbero
imperniarsi, per effetto della pronuncia emessa dalla Corte, sul primo
comma dell'art. 2 cod. pen. (sorretto dal secondo comma dell'art. 25
Cost.) e non sulla sola disposizione annullata dalla Corte stessa. E
conviene aggiungere che la pronuncia della Corte non potrebbe non
riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale
assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché in tal caso ne
risulterebbe alterato - come è stato esattamente notato in dottrina -
il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici
effetti di essa.
In secondo luogo, le norme penali di favore fanno anch'esse parte
del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva
dell'ordinamento. Ma lo stabilire in quali modi il sistema potrebbe
reagire all'annullamento di norme del genere, non è un quesito cui la
Corte possa rispondere in astratto, salve le implicazioni ricavabili
dal principio d'irretroattività dei reati e delle pene; sicché, per
questa parte, va confermato che si tratta di un problema (ovvero di una
somma di problemi) inerente all'interpretazione di norme diverse da
quelle annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso
per caso, nell'ambito delle rispettive competenze.
In terzo luogo, la tesi che le questioni di legittimità
costituzionale concernenti norme penali di favore non siano mai
pregiudiziali ai fini del giudizio a quo, muove da una visione troppo
semplificante delle pronunce che questa Corte potrebbe adottare, una
volta affrontato il merito di tali impugnative. La tesi stessa
considera, cioè, la sola alternativa esistente fra una decisione di
accoglimento, nei termini indicati dall'ordinanza di rimessione, ed una
decisione di rigetto, pronunciata sulla base dell'interpretazione fatta
propria dal giudice a quo. Ma questa Corte non è vincolata in assoluto
dalle opzioni interpretative del giudice che promuove l'incidente di
costituzionalità. In altre parole, non può escludersi a priori che il
giudizio della Corte su una norma penale di favore si concluda con una
sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi di cui in motivazione) o
con una pronuncia comunque correttiva delle premesse esegetiche su cui
si fosse fondata l'ordinanza di rimessione: donde una serie di
decisioni certamente suscettibili d'influire sugli esiti del giudizio
penale pendente.
Il che presenta un particolare rilievo nel caso in esame, di fronte
ad una norma come quella dettata dall'art. 5 della legge n. 1 del
1981: norma finora inapplicata in sede penale (almeno per quanto
risulta a questa Corte), su cui non si è dunque formata alcuna
interpretazione giurisprudenziale consolidata e che ha rappresentato,
per di più, l'oggetto di notevoli dissensi interpretativi fra il
pubblico ministero ed il giudice istruttore del Tribunale di Roma.
Sulla base di tutte queste ragioni, va quindi respinta l'eccezione
d'inammissibilità, proposta dall'Avvocatura dello Stato. La questione
dev'essere invece esaminata nel merito: come la Corte ha già fatto,
del resto, nell'analogo caso della sentenza n. 123 del 1972, relativa
alla causa di giustificazione prevista dall'ultimo comma dell'art. 51
del codice penale.
4. - Per poter dare una corretta risposta agli interrogativi
prospettati dall'ordinanza di rimessione - con riferimento agli artt.
3, primo comma, 28 e 112 Cost. - risulta però necessario, in primo
luogo, precisare quali siano la natura e la portata della norma in
questione: "I componenti del Consiglio superiore non sono punibili per
le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni, e concernenti
l'oggetto della discussione".
Giustamenute il giudice istruttore del Tribunale di Roma ha
dissentito dalla tesi del pubblico ministero, per cui si tratterebbe di
un'esimente insuscettibile - come già si è ricordato in narrativa -
di "estendersi ai fatti-reato diversi dalle offese all'onore e alla
reputazione". Un'interpretazione così restrittiva - che non trova
conforto alcuno nei lavori preparatori della legge n. 1 del 1981 - visualizza testo argomento è
esclusa dalla lettera della disposizione impugnata: dalla quale emerge
con chiarezza che il giudice penale non può distinguere,
nell'applicazione della scriminante in esame, fra le varie opinioni
manifestabili dai componenti il Consiglio (salvo soltanto il necessario
collegamento di esse con gli argomenti all'ordine del giorno del plenum
o delle competenti commissioni).
Esatta è pure l'implicita premessa dell'ordinanza di rimessione,
cioè che la norma impugnata abbia un ambito di operatività diverso da
quello delle scriminanti di diritto penale comune; e dunque non si
presti a venire risolta - come invece si accenna nell'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri - nella "causa di
giustificazione di cui all'art. 51 del codice penale". Al di là delle
ipotesi di "esercizio di un diritto" o di "adempimento di un dovere",
previste dal primo comma dell'art. 51, l'art. 5 della legge n. 1 del
1981 vuole garantire ai consiglieri una qualificata e rafforzata
libertà di manifestazione del pensiero, nell'esercizio delle loro
funzioni costituzionalmente garantite; senza di che la norma stessa
risulterebbe perfettamente superflua e collocherebbe il Consiglio
superiore della magistratura sul piano di qualsiasi altro collegio
investito di funzioni pubbliche. Ma la natura specifica di quella
previsione non toglie che essa sia stata attentamente delimitata dal
legislatore: con il preciso e dichiarato intento di evitare che la
garanzia si convertisse nello strumento di abusi, ipotizzato e
censurato dall'ordinanza di rimessione.
Anzitutto, qualunque condotta delittuosa che non si esaurisca in
manifestazioni del pensiero (e nei voti in cui si concretano i giudizi,
come quelli rilevanti nella specie, che la Costituzione riserva al
Consiglio superiore della magistratura) rimane soggetta al diritto
penale comune, quand'anche posta in essere dai consiglieri,
nell'esercizio delle loro funzioni. E, già da questo lato, il passo
dell'ordinanza in cui si denuncia senz'altro la norma in esame per
l'istituzione di "una frangia di funzionari sciolti dalla legge
penale", si rivela il frutto di un eccesso polemico: tanto meno
pertinente, se si considera che l'attuale tema del giudizio a quo
consiste in una ipotesi di interesse privato in atti di ufficio, che
sarebbe stato commesso nel valutare l'attività svolta da un
magistrato.
Secondariamente, la scriminante in questione si differenzia, sotto
un ulteriore aspetto dall'immunità parlamentare di cui al primo comma
dell'art. 68 Cost.. Fermo rimane, in verità, che sussiste un
fondamento comune ad ambedue le garanzie, nel senso che in entrambe le
ipotesi si tratta di assicurare il libero esercizio delle
corrispondenti funzioni, e non di privilegiare i singoli funzionari che
esercitano i compiti stessi. Ma le formule rispettivamente adoperate
dalla Costituzione e dalla legge n. 1 del 1981 sono volutamente
diverse. Nel primo caso, cioè, si afferma che "i membri del Parlamento
non possono essere perseguiti... "; nella stesura finale del disposto
in esame si chiarisce invece - a seguito di un apposito emendamento,
approvato dalla quarta commissione permanente della Camera - che "i
componenti del Consiglio superiore non sono punibili...": quasi per
escludere che i consiglieri siano stati in alcun modo sottratti ai
giudici penali, mediante un'immunità di tipo processuale e non solo
sostanziale. visualizza testo argomento A più forte ragione, è dunque fuor di luogo stabilire un
parallelo fra la scriminante di cui si discute e la cosiddetta garanzia
amministrativa dei prefetti e dei sindaci, dichiarata illegittima da
questa Corte con la sentenza n. 4 del 1965 (cui fa richiamo il giudice
istruttore del Tribunale di Roma).
Da ultimo, è significativo che la disposizione impugnata, pur
contenendo un generico riferimento alle opinioni espresse dai
componenti il Consiglio, precisi contestualmente che esse devono
concernere "l'oggetto della discussione". Sotto questo profilo, la
scriminante in esame presenta un punto di contatto con la previsione
dell'art. 598, primo comma, del codice penale (per cui "non sono
punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi
pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti
dinanzi all'Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un'Autorità
amministrativa, quando le offese concernono l'oggetto della causa o del
ricorso amministrativo"). Ne viene, viceversa, approfondita la
differenziazione rispetto alle opinioni espresse e ai voti dati dai
membri del Parlamento: coerentemente, del resto, con il carattere
specializzato, anziché generale e libero del fine, delle attribuzioni
esercitate dal Consiglio superiore. Ed anche in tal senso ne deriva che
il giudice penale può bene sindacare se siano stati superati i limiti
della condotta scriminata.
In breve, tutti questi dati concorrono a far concludere che l'art.
5 della legge n. 1 del 1981 ha previsto una causa di non punibilità
specifica, ma rigorosamente circoscritta, avente per oggetto le sole
manifestazioni di pensiero funzionali all'esercizio dei poteri - doveri
costituzionalmente spettanti ai componenti il Consiglio superiore;
sicché le censure proposte al riguardo dal giudice a quo si
dimostrano, per ciò stesso, destituite di fondamento.
5. - Ma la questione essenziale, che resta da affrontare, attiene
alla giustificazione costituzionale della norma in esame; e, più di
preciso, si risolve nell'interrogativo se una tale giustificazione
debba essere necessariamente espressa o possa ricavarsi dal sistema.
Nella prospettiva dell'ordinanza di rimessione, garanzie del genere
di quelle disposte per i componenti il Consiglio superiore sarebbero a
tal punto eccezionali, da dover trovare fondamento in norme
costituzionali appositamente dettate (secondo il criterio che questa
Corte ha seguito nella citata sentenza n. 4 del 1965). Ma nella specie,
con tutta evidenza, una previsione così tassativa non sarebbe
rintracciabile; e ciò basterebbe, a parte ogni altra considerazione,
per far ritenere illegittima la norma denunciata.
Simili ragionamenti hanno però il torto di confondere,
collocandole sul medesimo piano, garanzie di natura diversissima. La
posizione che questa Corte ha preso nella sentenza n. 4 del 1965
dev'esser riferita - come risulta con chiarezza dalla motivazione - ai
"casi di deroga al principio dell'obbligatorietà dell'azione del
pubblico ministero", con particolare riguardo all'autorizzazione a
procedere nei confronti di determinati soggetti. Ben altro è invece il
caso delle cause di non punibilità, stabilite in vista dell'esercizio
di determinate funzioni. Norme siffatte abbisognano di un puntuale
fondamento, concretato dalla Costituzione o da altre leggi
costituzionali; ma non è indispensabile - ad avviso della Corte - che
il fondamento consista in una previsione esplicita. All'opposto, il
legislatore ordinario può bene operare in tal senso al di là delle
ipotesi espressamente previste dalle fonti sopraordinate, purché le
scriminanti così stabilite siano il frutto di un ragionevole
bilanciamento dei valori costituzionali in gioco. Ed è lo stesso
giudice a quo che, in sostanza, finisce per assumere quest'ultimo punto
di vista: sia quando ricorda, senza affatto contestarla, la causa di
non punibilità configurata dal primo comma dell'art. 598 cod. pen.;
sia quando afferma, conclusivamente, che il vizio della norma censurata
emergerebbe dal contrasto "fra l'interesse che si voleva tutelare",
costituito dal "libero e corretto esercizio di pubbliche funzioni
preordinate ad assicurare l'indipendenza della magistratura", e
l'eccessiva estensione della tutela medesima.
6. - Ciò posto, è agevole notare che la natura, la posizione e le
funzioni del Consiglio superiore della magistratura sono state
concepite dalla Costituzione in termini così caratteristici, da
fornire un'adeguata ragione giustificativa della scriminante in
discussione.
Per prima cosa, comunque si voglia qualificarlo in sede dogmatica,
si tratta di un organo di sicuro rilievo costituzionale: dal che si
può già ricavare un evidente tratto distintivo rispetto ai Consigli
comunali e provinciali, impropriamente portati a paragone dal giudice
istruttore del Tribunale di Roma, nonché alla gran massa dei collegi
puramente amministrativi. Ciò che più conta, visualizza testo argomento dal nesso fra il primo
ed il secondo comma dell'art. 104 Cost. è dato desumere - come la
Corte ha osservato nella sentenza n. 44 del 1968 (per poi riaffermarlo
nella sentenza n. 12 del 1971) - "che l'istituzione del Consiglio
superiore della magistratura ha corrisposto all'intento di rendere
effettiva, fornendola di apposita garanzia costituzionale, l'autonomia
della magistratura, così da collocarla nella posizione di ordine
autonomo ed indipendente da ogni altro potere". visualizza testo argomento E la Corte ha
ulteriormente precisato - nella sentenza n. 142 del 1973 - che
"strumento essenziale di siffatta autonomia, e quindi della stessa
indipendenza dei magistrati nell'esercizio delle loro funzioni, che
essa è istituzionalmente rivolta a rafforzare, sono le competenze
attribuite al Consiglio superiore dagli artt. 105, 106 e 107 Cost.".
Ora, dall'insieme di queste disposizioni risulta che la parte
centrale e costituzionalmente necessaria dell'azione del Consiglio
consiste in apprezzamenti sulle attitudini, sui meriti e sui demeriti
dei magistrati da assegnare ai vari uffici, da trasferire, da
promuovere, da sottoporre a procedimenti disciplinari e via dicendo. Ma
la garanzia che il Consiglio è chiamato ad offrire in tal campo,
proprio per poter essere effettiva, richiede a sua volta che i
componenti del Consiglio stesso siano liberi di manifestare le loro
convinzioni, senza venire in sostanza costretti ad autocensure che
minerebbero il buon andamento della magistratura. In altre parole, è
nella logica del disegno costituzionale che il Consiglio sia garantito
nella propria indipendenza, tanto nei rapporti con altri poteri quanto
nei rapporti con l'ordine giudiziario, "nella misura necessaria a
preservarlo da influenze" che potrebbero indirettamente pregiudicare
"l'esercizio imparziale dell'amministrazione della giustizia" (cfr.
ancora la sent. n. 44 del 1968). Il che non esclude, ovviamente, che
l'attività consiliare sia controllabile in sede giurisdizionale: ma
sulla base dei ricorsi avverso le deliberazioni del Consiglio (o contro
i provvedimenti che ne adottino il contenuto), non già sindacando agli
effetti penali le opinioni espresse da parte di componenti il Consiglio
medesimo, nell'adempimento dei compiti che sono loro riservati per
Costituzione.
Certo, rimane il fatto che la scriminante in esame non è stata
configurata dalla Carta costituzionale, bensì da una legge ordinaria
ed appena nel gennaio del 1981, a molti anni dall'entrata in funzione
del Consiglio superiore della magistratura; ma ciò non si è
verificato senza un valido motivo. Malgrado il suo rilievo
costituzionale, il Consiglio ha infatti tardato a ricevere una
collocazione ed una sistemazione ben precisa. Dettagliatissima per
certi aspetti, la disciplina costituzionale è invece rimasta in vario
senso incompiuta, anche per ciò che riguardava la soluzione di
fondamentali problemi: dalla discussa questione dello scioglimento del
Consiglio, fino al regime dei diversi tipi di deliberazioni consiliari.
E la stessa legge istitutiva del 1958 - come l'esperienza ha dimostrato
- non ha saputo colmare del tutto le originarie lacune.
7. - Ne segue che la questione deve dirsi non fondata, con
riferimento a tutti i parametri costituzionali richiamati dal giudice a
quo.
Da un lato, non viene invocato a proposito l'art. 112 Cost.,
poiché la norma impugnata non incide sull'azione penale del pubblico
ministero (che nella specie, del resto, è stata da tempo esercitata),
ma vale ad escludere - in ipotesi - l'antigiuridicità del fatto
contestato agli imputati.
D'altro lato, è ben vero che il combinato disposto degli artt. 3 e
28 Cost. impone, in linea di massima, il pari trattamento dei
funzionari e dipendenti pubblici, quanto alla responsabilità penale
per gli atti da essi compiuti. Ma il principio così stabilito non
vieta che il legislatore ordinario, modificando le leggi penali vigenti
in materia, detti "regole particolari, che in deroga alle regole
comuni, determinino il contenuto ed i limiti di detta responsabilità"
(a quanto la Corte ha chiarito nella citata sentenza n. 123 del 1972).
E la disposizione a fattispecie esclusiva, contenuta nell'art. 5 della
legge n. 1 del 1981, trova sostegno - come già si è detto - nella
condizione del tutto peculiare che sul piano costituzionale spetta al
Consiglio superiore della magistratura.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, in riferimento agli artt.
3, primo comma, 28 e 112 della Costituzione, sollevata dal giudice
istruttore del Tribunale di Roma, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 giugno 1983.
F.to: LEOPOLDO ELIA - MICHELE ROSSANO
- ANTONINO DE STEFANO - GUGLIELMO
ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO
BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO
MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO
MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA -
VIRGILIO ANDRIOLI - GIUSEPPE FERRARI
- FRANCESCO SAJA - GIOVANNI CONSO -
ETTORE GALLO.
GIOVANNI VITALE - Cancelliere

 
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