N. 86 SENTENZA 7-15 MARZO 1994
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: prof. Gabriele PESCATORE; Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), promosso con ordinanza emessa il 14 maggio 1993 dal Tribunale di Firenze nel procedimento civile vertente tra Marasigan Francisca e Vivoli Luciano, iscritta al n. 371 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1993; Visti gli atti di costituzione di Marasigan Francisca e di Vivoli Luciano nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica dell'8 febbraio 1994 il Giudice relatore Luigi Mengoni; Udito l'avv. Giorgio Bellotti per Marasigan Francisca;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio di appello promosso da una collaboratrice familiare a tempo pieno contro la sentenza del pretore di Firenze che aveva confermato il licenziamento per causa di maternità intimatole dal datore di lavoro, il Tribunale di Firenze, con ordinanza del 14 maggio 1993, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 31, 35 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, "nella parte in cui non rende applicabile alle lavoratrici addette ai servizi domestici anche l'art. 2 della stessa legge". Questo articolo - non richiamato nell'art. 1, terzo comma, concernente le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari - vieta il licenziamento nel periodo compreso tra l'inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino. Premesso che la questione è già stata ripetutamente esaminata da questa Corte e dichiarata infondata dalle sentenze nn. 27 del 1974 e 9 del 1976, il giudice remittente dubita, alla stregua dell'evoluzione della normativa e della giurisprudenza costituzionale (rappresentata dalle sentenze nn. 61 del 1991, 46 e 179 del 1993), che il criterio della specialità del rapporto di lavoro domestico, su cui sono imperniate le motivazioni di rigetto delle due sentenze citate, possa ancora prevalere sui valori costituzionali inerenti alla tutela del matrimonio, della maternità e dell'infanzia. 2. - Nel giudizio davanti alla Corte costituzionale si sono costituite le parti private chiedendo l'una una dichiarazione di infondatezza, l'altra di fondatezza della questione. La difesa del datore di lavoro insiste sulle ragioni, connesse alla specialità del rapporto, che, secondo la richiamata giurisprudenza costituzionale, giustificano la norma denunciata. Nel caso di specie, al quale è limitata l'impugnativa, questa ratio specifica coinvolge l'art. 14 della Costituzione, del tutto trascurato dal giudice a quo. L'accoglimento della pretesa della lavoratrice comprimerebbe oltre ogni ragionevole misura il diritto di inviolabilità del domicilio, imponendo al datore di lavoro e alla sua famiglia una coabitazione forzosa con soggetti estranei. Il bilanciamento dell'interesse alla privatezza familiare con le esigenze di tutela della madre e del bambino non può avvenire se non nelle forme di solidarietà della previdenza sociale, secondo la direttiva già attuata dagli artt. 13 e segg. della legge n. 1204 del 1971. La difesa della lavoratrice riprende gli argomenti dell'ordinanza di rimessione, aggiungendo, a ulteriore confutazione del carattere di specialità del rapporto di lavoro domestico, che non si può distinguere tra lavoro nell'impresa e lavoro nella famiglia, perché anche quest'ultima è un'azienda in cui il collaboratore domestico svolge una prestazione produttiva. Non si nega che la permanenza della domestica nell'abitazione del datore di lavoro durante il periodo di conservazione del posto, compreso tra l'inizio della gestazione e il compimento di un anno di età del bambino, darebbe luogo a problemi, ma di questi non la Corte, bensì il legislatore dovrebbe preoccuparsi. 3. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione alla stregua delle argomentazioni, ritenute ancora valide, delle citate sentenze di questa Corte. Una volta accertata l'indiscutibile diversità del rapporto di lavoro domestico rispetto agli altri rapporti di lavoro, appare ragionevole che il legislatore, con scelta discrezionale, abbia limitato l'ambito di applicabilità della legge n. 1204 in ordine a questa particolare fattispecie. Osserva, infine, l'interveniente che le sentenze costituzionali citate nell'ultima parte dell'ordinanza di rimessione non possono fornire indicazioni appropriate per la questione de qua, avendo affrontato temi diversi.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 31, 35 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, "nella parte in cui non rende applicabile alle lavoratrici addette ai servizi domestici anche l'art. 2 della stessa legge". Questo articolo - non incluso tra le disposizioni della legge citata dichiarate applicabili dall'art. 1, terzo comma, alle lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari - vieta il licenziamento della lavoratrice nel periodo tra l'inizio della gravidanza (attestato da certificato medico) e il compimento di un anno di età del bambino. 2. - La questione è già stata ripetutamente esaminata da questa Corte, che l'ha dichiarata infondata una prima volta con sentenza n. 27 del 1974, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, una seconda volta con sentenza n. 9 del 1976, anche in riferimento agli artt. 4, 31 e 35 della Costituzione Argomento fondamentale di entrambe le pronunce è la specialità del rapporto di lavoro domestico (nel senso dell'art. 2239 cod. civ.), più accentuata nel caso, ricorrente nella specie, di lavoro a tempo pieno con inserimento del prestatore nella convivenza familiare (art. 2242 cod. civ.). A questo argomento però, contrariamente a quanto sembra ritenere l'ordinanza di rimessione, non è stata attribuita la prevalenza assoluta che la specialità del rapporto ottiene nella disciplina del codice civile, il quale, con valutazione tipica (art. 2240 cod. civ.) - in deroga al criterio selettivo in generale affidato al giudice per i rapporti di lavoro speciali dall'art. 2239 - esclude a priori l'applicabilità al lavoro domestico di tutte le norme dettate per il lavoro nell'impresa, e quindi anche la tutela della maternità prevista dall'art. 2110. Questa valutazione non è più sostenibile nel nuovo ordinamento costituzionale, in particolare di fronte agli artt. 31 e 37 della Costituzione, e contrasta inoltre con gli impegni internazionali assunti dall'Italia: gli artt. 3 e 6 della Convenzione n. 103 dell'O.I.L., ratificata con legge 19 ottobre 1970, n. 864, e l'art. 8 della Carta sociale europea, ratificata con legge 3 luglio 1965, n. 929, prevedono senza eccezioni - e anzi la prima con esplicito riferimento al "lavoro domestico salariato effettuato in case private" (art. 1, comma 3, lett. h) - come principio coessenziale alla tutela della maternità un congedo obbligatorio della lavoratrice di almeno dodici settimane (di cui non meno di sei dopo il parto) correlato col divieto di licenziamento durante tale periodo e anche anteriormente se il preavviso venga a scadere nel corso di esso. L'argomento della specialità del rapporto ha un valore strettamente relativo alla prospettazione della questione di costituzionalità in funzione di un'estensione alle lavoratrici domestiche dell'art. 2 della legge n. 1204 del 1971. In questi termini la questione non può trovare accoglimento perché l'art. 2 - il cui referente tipico è la fattispecie dell'art. 2094 cod. civ. - è incompatibile con la specialità del lavoro domestico per almeno due ragioni, le quali esigono una diversa ponderazione degli interessi in conflitto. Anzitutto, un divieto di recesso dal rapporto prolungato per ventun mesi, quale quello previsto dal primo comma dell'art. 2 col solo temperamento della giusta causa, sarebbe un vincolo eccessivamente gravoso per l'economia familiare. In secondo luogo, mentre per la lavoratrice in un'impresa (o in uno studio professionale: art. 2238, secondo comma, cod. civ.) il periodo di interdizione dal lavoro (art. 4 della legge n. 1204) comporta naturaliter l'assenza dal luogo di lavoro, invece per la lavoratrice domestica esso non determinerebbe per sé solo tale effetto: occorre una norma che lo qualifichi come periodo di "congedo" e, quindi, di sospensione del titolo di ammissione alla convivenza familiare, le cui implicazioni pratiche durante questo periodo eccederebbero ogni ragionevole tollerabilità di una famiglia media. 3. - Tuttavia, poiché l'ordinanza di rimessione non invoca soltanto il principio di eguaglianza, la risposta alla questione non può ridursi ad affermare l'improponibilità dell'art. 2 della legge n. 1204 quale tertium comparationis ai fini dell'art. 3 della Costituzione. In riferimento agli artt. 31 e 37 della Costituzione, i quali per farsi valere non hanno bisogno di termini di comparazione, il richiamo dell'art. 2 nel dispositivo dell'ordinanza può intendersi come diretto a colorare per contrasto l'impugnativa dell'art. 1, terzo comma, nella parte in cui non prevede una disciplina che, con modalità convenienti alla specialità del rapporto, attui anche per le lavoratrici domestiche, in caso di gravidanza e puerperio, il principio dell'art. 2110, secondo comma, cod. civ., mentre la stessa legge (art. 13) - adempiendo solo parzialmente la direttiva dell'art. 2 della legge 26 agosto 1950, n. 860 - ha provveduto nel titolo II ad attuare il principio dell'art. 2110, primo comma. Così intesa, la questione deve essere dichiarata inammissibile perché implica una intromissione nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore, al quale soltanto spetta di determinare le modalità temporali del divieto di licenziamento della lavoratrice domestica in maternità e di definire - in conformità del modello delle convenzioni internazionali, da troppo tempo non attuate su questo punto - i diritti e gli obblighi delle parti durante l'astensione obbligatoria dal lavoro, modulandoli secondo la varia tipologia del rapporto. Se al lavoro domestico fosse applicabile l'art. 2110 cod. civ., tali determinazioni, in mancanza di norme di legge o di usi normativi, potrebbero essere fatte dal giudice secondo equità, utilizzando quel modello coordinato col criterio di compatibilità di cui all'art. 2239 cod. civ. Ma tale questione, concernente la disciplina del codice civile, eccede i limiti dell'impugnativa proposta dal giudice remittente, la quale investe soltanto la legge n. 1204 del 1971.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, terzo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 31, 35 e 37 della Costituzione, dal Tribunale di Firenze con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 7 marzo 1994.
Il Presidente: PESCATORE Il redattore: MENGONI Il cancelliere: DI PAOLA Depositata in cancelleria il 15 marzo 1994. Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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