N. 286 SENTENZA 15-29 GIUGNO 1995
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: prof. Antonio BALDASSARRE; Giudici: prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO, avv. Massimo VARI, dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA;
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 70 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 23 settembre 1994 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da Bambara Maria contro il Fallimento Zunino Bernardo, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 1995; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un giudizio promosso da Maria Bambara nei confronti del Fallimento Bernardo Zunino, avente ad oggetto la legittimità dell'acquisizione alla massa fallimentare di beni acquistati dalla moglie del fallito nei cinque anni precedenti la data del fallimento, la Corte di cassazione, sez. I civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 70 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in riferimento agli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione. Ritiene il giudice rimettente che la disposizione impugnata, introduttiva della c.d. presunzione "muciana", non si applichi, secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale, ai beni oggetto di comunione legale dei coniugi, continuando essa viceversa ad operare nell'ipotesi in cui tra i coniugi sussista il regime convenzionale della separazione dei beni. Tale differenza rende la disposizione confliggente, a parere del giudice rimettente, con i parametri costituzionali invocati. Si prospetta in primo luogo la violazione dell'art. 3, secondo comma, della Costituzione per irragionevolezza sopravvenuta della norma, a seguito della disciplina dei rapporti di famiglia, attuativa di valori costituzionali, introdotta dalla legge 19 maggio 1975, n. 151. Si rileva il contrasto tra la disposizione impugnata e gli artt. 31, primo comma (nella parte in cui richiede misure per agevolare la famiglia), 29 (nella parte in cui fonda la famiglia sul matrimonio) e 3, primo comma, della Costituzione (per il divieto da esso articolo ricavabile di fare oggetto la famiglia di misure di sfavore). Il giudice rimettente sottolinea anche il contrasto della disposizione impugnata con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento che dalla disposizione deriva in danno delle famiglie che abbiano scelto il regime di separazione dei beni od altro regime convenzionale in relazione (all'esterno) a famiglie di fatto o ad altre forme di libera convivenza, ovvero in relazione (all'interno della famiglia legittima) ai nuclei che hanno optato per il regime di comunione legale: tutti sottratti alla sfera di operatività della norma suddetta. L'ordinanza di rimessione fa infine riferimento alla sentenza 24 luglio 1968 della Corte costituzionale tedesca che ha dichiarato la presunzione "muciana" in contrasto con l'art. 6 Abs. 1 del Grundgesetz, sostanzialmente corrispondente all'art. 31 della nostra Costituzione. Questa sentenza, pur riconoscendo che "lo scopo del par. 45 K.O. era quello di impedire che i coniugi spostino tra di loro il patrimonio in modo non percepibile e dannoso per i creditori", ha ritenuto l'illegittimità costituzionale di detta disposizione in quanto "connette i suoi effetti soltanto alla semplice esistenza del matrimonio, intervenendo addirittura nei casi in cui i coniugi nel momento dell'acquisto dei beni vivono separati". Ciò per l'essenziale motivo che la Costituzione prevede la difesa del matrimonio e della famiglia dall'interferenza di altre forze e vietando allo Stato di pregiudicare detti istituti con norme di sfavore prive di sufficiente giustificazione. Ha concluso il Bundesverfassungsgericht che il pericolo innegabile di spostamenti del patrimonio in danno dei creditori può giustificare regole particolari per i coniugi solo se non violano il divieto di eccessi di misura (u'bermassverbot); eccesso che fu ravvisato nel par. 45 K.O. soprattutto perché non prevedeva alcuna limitazione temporale, con l'effetto di una responsabilità oggettiva del coniuge non debitore. Ricorda infine l'ordinanza che anche in Francia la presunzione "muciana" è stata legislativamente abolita, essendo stato sostituito il precedente testo dell'art. 542 del code de commerce con la legge 13 luglio 1967, n. 563, che pone l'onere della prova a carico della massa dei creditori. 2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque manifestamente infondata. Al riguardo, ritiene la difesa erariale che l'ordinanza di rimessione non individui alcuna concreta smagliatura nel tessuto normativo tale da consentire di varcare la soglia riservata alla discrezionalità del legislatore. In particolare, si sostiene che la sudditanza economica del coniuge dell'imprenditore derivante dalla difficoltà della prova sembra enfatizzare il problema pratico come insuperabile ed in contrasto con la realtà, essendo comunque lasciata la possibilità al coniuge non imprenditore di valutare liberamente - nella scelta del sistema patrimoniale - la eventualità o meno di tali conseguenze. Quanto all'asserita violazione del combinato disposto degli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione, si sottolinea l'illegittimità, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte, di un sistema di unificazione fittizia dei patrimoni dei coniugi, mentre la disposizione ora impugnata viene applicata nel quadro di quella eguaglianza coniugale che è il perno dei rapporti familiari.
Considerato in diritto
1. - La Corte di cassazione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 70 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non esclude l'operatività della presunzione in esso stabilita (c.d. presunzione "muciana") nelle ipotesi in cui tra i coniugi sussista il regime convenzionale della separazione dei beni. Dubita il giudice rimettente che la predetta norma sia in contrasto: 1) con l'art. 3, secondo comma, della Costituzione, in relazione anche agli artt. 3, primo comma, 29 e 31, primo comma, della Costituzione per irragionevolezza sopravvenuta della norma nel quadro generale della nuova disciplina dei rapporti di famiglia (introdotta con legge 19 maggio 1975, n. 151), attuativa di valori costituzionali; 2) con lo stesso art. 3, secondo comma, della Costituzione per ulteriori aspetti di irragionevolezza con riguardo specifico a singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia; 3) con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento in danno delle famiglie che abbiano scelto il regime di separazione dei beni od altro regime convenzionale in relazione: a) (all'esterno) a famiglie di fatto o ad altre forme di libera convivenza; b) (all'interno della famiglia legittima) ai nuclei che hanno optato per il regime di comunione legale; 4) con gli artt. 31, primo comma (nella parte in cui richiede misure per agevolare la famiglia), 29 (nella parte in cui fonda la famiglia sul matrimonio) e 3, primo comma (per il divieto da esso articolo ricavabile di fare oggetto la famiglia di misure di sfavore), della Costituzione. 2. - La questione va dichiarata inammissibile per i motivi che saranno più avanti esposti. L'antico istituto della presunzione in oggetto - com'è noto - prende il nome di "muciana" dal giureconsulto Quinto Mucio che nel secondo secolo a.C. l'introdusse (D. 24, I, 51) per evitare il sospetto che i beni a disposizione della moglie non provenissero a questa dal marito bensì da fonti disonorevoli. Col passare dei secoli, essa veniva sempre intesa a provare che quanto la moglie acquistava era di provenienza del marito, ma in base al diverso motivo che la donna non esercitava di regola un'attività lucrativa. Solo più tardi l'istituto fu utilizzato per tutelare i diritti dei creditori del marito, escludendosi però l'operatività della presunzione nei casi in cui la moglie fosse "obstetrix, vel lanificio alioque simili artificio perita, vel mercaturam exercuisset". La condizione subordinata della donna dal punto di vista economico non cambiò per molto tempo, per cui il codice di commercio napoleonico confermò ampia valenza alla presunzione "muciana"; e la stessa fu recepita nel nostro codice di commercio del 1882 nell'art. 782 che non prevedeva limiti di tempo, ma ammetteva la prova contraria. 3. - Già agli inizi di questo secolo numerosi studiosi ritennero che detto istituto - a prescindere dal problema del suo esatto inquadramento giuridico - non fosse più giustificato in una società in cui cominciavano ad essere frequenti i casi di separazione di attività e di patrimoni della moglie. Questi dubbi contribuirono ad un ridimensionamento della disciplina dell'istituto nella legge fallimentare del 1942, che non riferì più la "muciana" alla "moglie" ma al "coniuge", limitando la sua operatività al quinquennio anteriore al fallimento e confermando altresì la possibilità di superamento della presunzione mediante prova contraria. Sulla base di tale situazione normativa, nel periodo intercorrente tra la data di approvazione della legge di riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151) e la sua entrata in vigore, questa Corte ritenne (sentenza 10 luglio 1975, n. 195) non fondata la questione di legittimità costituzionale della "muciana" sollevata sulla base di rilievi diversi da quelli oggetto del presente giudizio. Ma subito dopo la predetta riforma, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di merito, confermata più tardi da quella della Corte di cassazione, interpretarono il sistema nel senso della inoperatività, per ius superveniens, di detta presunzione nell'ipotesi di regime di comunione legale, dal momento che la legge attribuisce gli acquisti ad entrambi i coniugi a prescindere dalla provenienza del denaro. Ed anche in regime di separazione di beni, la Corte di cassazione nel 1977 escludeva l'applicabilità della presunzione nel caso in cui il coniuge non fallito fosse anch'egli imprenditore. 4. - La presente ordinanza di rimessione motiva il sospetto di illegittimità costituzionale della norma denunziata per quattro ordini di argomentazioni, che si andranno ad esaminare separatamente. Viene denunziata innanzi tutto la sopravvenuta irragionevolezza (art. 3, secondo comma, della Costituzione) di detta norma rispetto alle linee di fondo della riforma del 1975 che "ha tradotto in regole giuridiche i principi enucleati dalla carta costituzionale in materia di famiglia, con lo scopo di rafforzare il vincolo coniugale e di garantirlo .. anche attraverso la valorizzazione del lavoro in modo paritario di ciascuno dei coniugi, pur se soltanto casalingo". Osserva in particolare la Corte rimettente che detto ius superveniens "introduce una rete di principi - ispirati al canone sovraordinato della parità delle posizioni dei coniugi - nella quale la norma interferente pare impigliarsi e venire comunque a collidere, per la valenza assolutamente antinomica dei presupposti da cui muove e del risultato cui è suscettibile di approdare, assoggettando il coniuge in bonis all'onere spesso faticoso, se non addirittura impossibile, di provare ciò che nella logica paritaria della riforma dovrebbe essere piuttosto il dato fattuale di normale ricorrenza: l'effettività cioè degli acquisti personali, come corollario della pari dignità, che esclude la sudditanza anche economica del coniuge all'imprenditore". 5. - Queste prime considerazioni dell'ordinanza non appaiono decisive per dedurre l'illegittimità costituzionale della norma denunziata. Indubbiamente tra le linee fondamentali della riforma del diritto di famiglia va ravvisata una logica paritaria nella posizione di entrambi i coniugi, principio estensibile agli aspetti del lavoro e delle sfere patrimoniali. Ciò in maggiore aderenza all'odierna realtà sociale delle famiglie, ed alla moderna concezione che valorizza l'attività di ciascuno dei coniugi, escludendo la subordinazione economica di uno all'altro. Questa linea tendenziale si manifesta in diverse norme vigenti, tra le quali il nuovo testo dell'art. 143 del codice civile, l'abolizione dell'antico istituto della dote, l'introduzione del regime legale della comunione dei beni, nonché il passaggio della separazione dei beni all'ambito dei regimi convenzionali, in cui i coniugi optano espressamente per un regime volontario che implica l'esclusione di interferenze fra i loro patrimoni, specie nell'ipotesi in cui questi siano frutto delle rispettive attività. Si fa inoltre notare che nell'attuale sistema si presumono due situazioni normalmente verificabili: a) per un verso, quanto osserva l'ordinanza di rimessione circa la "normale ricorrenza dell'effettività degli acquisti personali" con denaro proprio; b) per altro verso, che - in mancanza della prova della proprietà esclusiva - anche in regime di separazione dei beni, questi si intendono comuni (art. 219 del codice civile, come novellato dalla legge del 1975). Sicché, in forza della disposizione dell'art. 70 della legge fallimentare, si dovrebbe invece presumere un'ipotesi eccezionale: che cioè il bene acquistato da un coniuge sia in realtà interamente dell'altro coniuge, in contrasto con le predette due normalità presunte dai principi della riforma. 6. - Nonostante queste disarmonie, mentre la logica paritaria in ordine alla sfera patrimoniale dei coniugi ha contribuito a far ritenere, nel diritto vivente e quasi pacificamente in dottrina, non più operante il vecchio istituto della presunzione "muciana" per il sopravvenuto regime di comunione legale dei beni, non è altrettanto prevalente l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale nel ravvisare analoga incompatibilità per l'ipotesi di regime di separazione dei beni. Quel che più conta rilevare in questa sede, deputata a giudicare dei profili di legittimità costituzionale della disposizione, è che le predette incongruenze si risolvono prevalentemente in contrasti fra la norma impugnata (come interpretata dal giudice rimettente) ed altre norme dello stesso rango, tra cui quelle di riforma del diritto di famiglia, le quali, pur configurandosi come corretta attuazione dei principi della Costituzione, non partecipano tuttavia della stessa forza di questi principi. Trattandosi quindi di aspetti irragionevoli che non attengono all'ambito costituzionale, e di incompatibilità tra norme di natura ordinaria, la loro soluzione - in modo ad esempio analogo a quanto avvenuto per l'ipotesi di comunione legale - resta affidata all'attività ermeneutica di competenza dell'autorità giudiziaria. 7. - In secondo luogo, l'ordinanza rileva l'ulteriore irragionevolezza della situazione normativa con specifico riguardo alla disciplina di singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia. Nella particolare prospettiva di raffronto con la comunione legale, la Corte di cassazione osserva che nel passaggio (previsto dall'art. 193 del codice civile) dalla comunione al regime di separazione giudiziale dei beni in presenza di situazioni di disordine negli affari del consorte, chi voleva porre più al sicuro quella quota di proprietà degli acquisti che la comunione - anche per inoperatività della presunzione "muciana" - gli avrebbe comunque garantito, incapperebbe proprio in questa presunzione ancora compatibile col regime di separazione dei beni. Che se invece detta presunzione non fosse operante nel caso previsto dall'art. 193 (separazione giudiziale dei beni), sarebbe contraddittorio applicarla nel regime sostanzialmente identico della separazione convenzionale dei beni. Inoltre l'effetto della "muciana" dovrebbe assurdamente prodursi anche nel caso di separazione personale dei coniugi. Queste deduzioni relative a particolari censure del vigente sistema potrebbero essere controbilanciate da opposte esigenze di mantenimento della presunzione "muciana": quali l'apprestamento di un rimedio rapido al frequente abuso di sottrazione dei beni alla responsabilità patrimoniale del fallito; la maggiore facilità per il coniuge nel dare la prova contraria, rispetto alle maggiori difficoltà per i creditori, obbligati ad esperire più complesse azioni di simulazione o di intestazione fiduciaria. In ogni caso - ciò che è decisivo in questa sede - anche per queste doglianze va ripetuto quanto già osservato circa la natura delle lamentate incompatibilità, che esse vanno cioè risolte in via interpretativa o possono dare luogo ad una serie di auspicabili rimedi legislativi, in quanto implicano articolate risposte eccedenti i poteri di questa Corte. 8. - Col terzo ordine di rilievi, l'ordinanza di rimessione prospetta dubbi di legittimità costituzionale della stessa disposizione per diversi profili di ingiustificata disparità di trattamento che essa introdurrebbe (art. 3, primo comma, della Costituzione) in danno delle famiglie che abbiano scelto il regime di separazione dei beni, sia "all'esterno, rispetto a famiglie di fatto e ad altre forme di libera convivenza, sia all'interno stesso della famiglia legittima rispetto ai nuclei che abbiano optato per il regime di comunione legale: tutti del pari sottratti alla sfera di operatività della norma suddetta". Dal raffronto tra tali situazioni emergerebbe una disparità di trattamento anche tra creditori (nell'uno o nell'altro regime patrimoniale) e tra creditori dell'uno o dell'altro coniuge. Si osserva in generale che la predetta presunzione non sembra più in sintonia con i principi della riforma del 1975 (a loro volta ispirati ai principi costituzionali) considerando che è venuto meno il fondamento socio-economico di quella disparità fra i coniugi che la giustificava nei secoli passati. Anche il superamento del principio dell'indissolubilità giuridica del matrimonio, tenderebbe a indebolire la logica della presunzione "muciana" riguardo all'affidamento nell'altro coniuge, privilegiando il ricorso all'intestazione dei beni ai figli o ad altri parenti. Quanto in particolare al regime di separazione dei beni, si sottolinea che i principi della predetta riforma hanno coinvolto sotto diversi aspetti anche tale convenzione, ove si consideri ad esempio che, pure in presenza di detta separazione, viene ora ad operare la presunzione di comunione dei beni di cui non è provata la proprietà esclusiva. Onde non sarebbe giustificata, in ordine alla operatività della "muciana", una disciplina nettamente differenziata tra i coniugi in regime di comunione e quelli con la convenzione di separazione dei beni. Senza contare infine che ogni disparità nel trattamento della famiglia legittima (realizzata mediante una norma di sfavore) rispetto alle altre convivenze, oltre a menomare la posizione del coniuge, potrebbe contribuire a sviare la stessa scelta matrimoniale. 9. - A quest'ultimo proposito, particolarmente delicato è il discorso che si collega al quarto ordine di considerazioni contenuto nell'ordinanza di rimessione, e cioè alla violazione degli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione che tutelano la famiglia, con l'implicito divieto di farla oggetto di misure di sfavore. La Corte di cassazione - oltre a citare la pronuncia della Corte costituzionale tedesca - menziona la sentenza n. 179 del 1976 con cui questa Corte dichiarò l'illegittimità costituzionale della disciplina fiscale sul cumulo dei redditi coniugali in quanto normativa "che non agevola la formazione della famiglia ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi, e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze, ad un trattamento deteriore". Potrebbe ricordarsi anche l'abolizione della presunzione "muciana" in Francia e quanto ebbe ad osservare questa Corte (sentenza n. 91 del 1973) dichiarando l'illegittimità del divieto di donazioni fra coniugi (art. 781 del codice civile) per la considerazione che tale divieto rappresentava "una palese ineguaglianza giuridica di coloro che sono uniti in matrimonio legittimo non solo rispetto alla generalità dei cittadini, ma anche rispetto ad altri casi di unioni e di convivenze, quali il matrimonio putativo, il matrimonio successivamente annullato, la convivenza more uxorio, di cui all'art. 269 del codice civile, il concubinato ed altre". 10. - Indipendentemente dai citati precedenti e dagli orientamenti della disciplina di altri Stati europei, mentre può riconoscersi che l'art. 31 della nostra Costituzione non si limita ad impegnare la Repubblica ad interventi di promozione sociale a tutela della famiglia, ma implica altresì il divieto per il legislatore di introdurre discipline sfavorevoli alla famiglia stessa, va soggiunto che da ciò non discende tuttavia l'illegittimità costituzionale anche di quelle norme che - in un equilibrato bilanciamento di interessi contrapposti - pongano a carico dei coniugi oneri giustificati e non pregiudizievoli ai delicati compiti che la famiglia assolve anche nell'interesse sociale. A questo punto, non appare necessario analizzare il fondamento delle doglianze fatte in proposito dall'ordinanza di rimessione, essendo sufficiente osservare che, a tutto concedere, un ipotetico loro accoglimento comporterebbe la scelta fra diverse soluzioni nel ridisegnare il giusto bilanciamento delle esigenze dei rapporti fra coniugi rispetto a quelle dei creditori e delle regole di mercato, potendosi riconsiderare la permanenza della giustificazione della presunzione, o la sua disciplina in modo articolato rispetto ai diversi regimi patrimoniali della famiglia. Ciò rende auspicabile l'intervento legislativo, finalizzato ad un razionale riordino della materia, inteso ad armonizzare questo delicato aspetto della legge fallimentare ai principi ispiratori della riforma del 1975, eliminando gli inconvenienti lamentati, tenendo presenti gli altri ordinamenti europei e considerando in ogni caso i principi costituzionali sulla libertà dei coniugi e sulle esigenze di quel nucleo familiare che la Costituzione ha voluto chiaramente privilegiare. Va conclusivamente affermato che il complesso delle considerazioni sopra esposte, inducono a dichiarare l'inammissibilità della questione sollevata relativamente a tutti e quattro i profili formulati nell'ordinanza di rimessione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 70 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 1995.
Il Presidente: BALDASSARRE Il redattore: SANTOSUOSSO Il cancelliere: FRUSCELLA Depositata in cancelleria il 29 giugno 1995. Il cancelliere: FRUSCELLA
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